giovedì 16 marzo 2017

"Le notti blu" di Chiara Marchelli: scopriamolo insieme all'autrice!

Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A pochi giorni dall'incontro con Chiara Marchelli, arriva la notizia della sua candidatura al premio Strega con "Le notti blu", edito Giulio Perrone Editore (brossurato a 15€):
Tutti crediamo di conoscere le persone che amiamo: Larissa e Michele si conoscono da una vita, così come pensano di conoscere Mirko, il figlio che lascia gli Stati Uniti, dove è nato, per vivere in Italia e sposare Caterina. Un colpo di fulmine che non hanno mai approvato pienamente. Larissa e Michele sono sposati da oltre trent'anni, vivono a New York, hanno una vita agiata e hanno saputo costruire un rapporto solido, basato sulla cura reciproca, sulle piccole e generose attenzioni e sulle affettuose abitudini della loro quotidianità. "Le notti blu" racconta, come una sorta di lastra a raggi X, il matrimonio di Larissa e Michele e la loro vita che sembra normalissima, se non fosse per un dolore tremendo che accompagna, e regola, le loro esistenze. È una notizia dall'Italia a rompere l'equilibrio che la coppia ha faticosamente costruito.

Sono felicissima di questa candidatura perchè il romanzo di Chiara Marchelli mi ha graffiato il cuore, ed eccomi qui a proporvi la nostra chiacchierata con l'autrice, che ci ha incontrati alla libreria Verso tra tanti scaffali carichi di coloratissimi libri per bambini.

Come mai ha scelto questo argomento, così crudo e difficile, e di parlare di una vicenda familiare che vede coinvolte persone di una certa età, piuttosto lontane dalla sua età anagrafica?
L'ho scelta perché, quando scrivo, le mie sono storie che appartengono a tutti, che ci sfiorano o ci toccano. Non è autobiografica, però mi ha sfiorata da vicino, perché qualcosa di simile è successo a persone che mi sono molto care e mi è rimasta dentro. Come spesso succede, almeno a me, se una cosa resta dentro, sedimenta e non va via, allora ne devo ricavare qualcosa. Il mio strumento è la scrittura e quindi dopo un certo periodo di tempo questa storia è tornata in superficie e ho dovuto scriverne, senza pensare tanto a quello che stavo facendo. Non che avessi paura di mettermi nei guai, pensando "oddio, adesso scrivo di due persone che hanno quasi l'età dei miei genitori, dal punto di vista di un uomo"... Non ho pensato a tutto questo, ho solo scritto. Se uno scrittore dovesse pensare a tutto questo probabilmente nel novanta per cento dei casi si congelerebbe prima di cominciare.
È stato difficile scrivere "Le notti blu" dal punto di vista di un uomo?
No, perché da sempre ho più facilità a scrivere dal punto di vista di un uomo. Al punto che tutti i miei romanzi hanno protagonisti maschili. Credo che il lato maschile della mia personalità sia molto sviluppato, e che empatia o conoscenza mi permettono di scrivere in un modo che poi non mi sembra sciocco o fatto di luoghi comuni.
Ogni volta che ho provato a scrivere dal punto di vista di una donna facevo invece troppo riferimento alle mie esperienze personali e venivano fuori delle cose che non mi convincevano de tutto, per non dire che spesso mi annoiavo addirittura.
Io scrivo per uscire da me, per inventare e vivere un mondo parallelo. Nel libro che sto scrivendo il punto di vista è comunque di una donna più matura di me e quindi riesco a fare lo scarto.
Ed è stato invece difficile scrivere dal punto di vista di una persona anziana?
Sicuramente è stato faticoso, ma io penso che prima di essere uomini, donne, giovani o vecchi siamo delle persone, degli esseri umani. Non avrei certo potuto scrivere questa storia quindici anni fa, questo è sicuro, ma ci sono comunque dei meccanismi comuni, come ad esempio il modo di affrontare certer gioie e certi dolori, che sono sempre condivisibili. Devi avere sempre in testa l'identità del personaggio e il luogo dove sta, poi è possibile fare questo genere di operazione se sei uno scrittore vero, non necessariamente bravo. Lo scrittore vero osserva e penetra la realtà e cerca di scavarla, comprenderla e farsi strumento di quello che ha intorno per trasmetterlo. È comunque difficile perché devi uscire da te stesso, ma in ogni caso io ho già 45 anni: ho passato buona parte della mia vita con persone anziane, e sono sempre stata curiosa nei confronti delle età diverse dalla mia.

Un'osservazione: mi è piaciuta l'atmosfera di sospensione che pervade il romanzo, e che porta il lettore a voler sapere cosa c'è sotto, a scoprirne il dramma nascosto. La sospensione è scandita dalla successione di quei piccoli riti tra i personaggi che potrebbero essere momenti di condivisione e invece raggelano, incluso quello del caffè. Questo senso di sospensione era voluto dal principio o è nato scrivendo?
È venuto scrivendo, e non so dire come. Io stavo solo scrivendo la mia storia. Queste riflessioni a posteriori aiutano a capire cosa si è fatto è perché, ma io volevo comunque mantenere una certa discrezione nei confronti della storia, trattandola (come altre situazioni dolorose in altri miei libri) nella misura che ritenevo migliore per me, avendo molto rispetto per questo tipo di dolore e non volendo fare sciacallaggio o facile sentimentalismo.
Uno dei punti fondamentali che ho affrontato anche attraverso la scelta del linguaggio è stato quello di conservare una distanza, in modo che la storia parlasse da sè: fosse per esempio poco comunicata attraverso aggettivi, poco definita. Ho cercato di collocare gli eventi nel modo più oggettivo possibile, guardandoli come attraverso un buco, senza metterci troppo. Non descrivere troppo, ma semplicemente dire perché certe cose ai personaggi vanno  bene o male, nel tentativo di essere più essenziale possibile.
È molto più difficile scrivere del dolore che di una bella storia d'amore, perché si rischia di travolgere il lettore. Qual è stato il suo approccio a questo tema - centrale nel romanzo - per poterlo trasmettere al lettore in modo equilibrato?
Io non sono capace di scrivere di felicità. Non sono in grado di rendere interessante una storia d'amore, anche se in apparenza è più facile perché c'è meno coinvolgimento e meno sofferenza, meno sforzo: bisogna esserne capaci, mentre io divento banale.
Dal punto di vista artistico in genere la sofferenza è molto più interessante, perché nella sofferenza c'è il cambiamento. La felicità non è uno stato, ma un momento che non dura mai più di tanto: non è interessante perché costituisce una stasi, non contiene nulla di dinamico che possa interessarmi come scrittrice. D'altronde lo dice già il principio di Anna  Karenina, "tutte le famiglie felici si somigliano, ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo".
È nella sofferenza che, secondo me, posso cercare quello che mi interessa.
È una cosa che ho sempre fatto inconsapevolemente, finché una volta uno scrittore mi fece notare, parecchio tempo fa, che nei miei romanzi metto sempre la morte. La vita e la morte: credo sia il riassunto e l'essenza non solo di quello che faccio, ma di tutto quello che si esprime. L'inizio e la fine, in mezzo c'è tutto e a me interessano estremamente le forme del dolore.

Il personaggio di Michele cerca di spiegare il dolore basandosi su delle formule matematiche, soprattutto attraverso la teoria matematica dei giochi.
È un istinto naturale, quello di razionalizzare il dolore?
Tutti noi abbiamo bisogno di trovare dei riferimenti. Michele è un uomo che parte corazzato, abituato a vivere come fanno spesso gli studiosi, ovvero dedicandosi a qualcosa che diventa la priorità della loro vita. Prova a usare la scienza per gestire un dolore che, altrimenti, sarebbe ingestibile.
Da un lato trova una conferma nel rapporto tra teoria dei giochi e suicidio, e io quando ho iniziato le mie ricerche non lo sapevo - quando ci sono arrivata per me è stata una benedizione -, dall'altro capisce che, in realtà, nessuna teoria può dargli una risposta, perciò arriva a un punto di rottura.
Ma dove c'è rottura entra anche la luce. Sceglie di rinascere, di tornare in superficie.
Nel libro si parla della teoria del gioco non cooperativo, che mi ha incuriosito.
Io mi sono laureata in arabo, adesso insegno italiano e faccio la scrittrice: di teoria dei giochi prima di scrivere questo libro non sapevo niente, quindi ho studiato un anno e mezzo fa, facendo ricerca, e dopo aver terminato il libro ho purtroppo dimenticato buona parte di quello che ho letto.
Il gioco non cooperativo nella storia mi serve come metafora per spiegare che la vita non coopera con noi. Come spiegare un dolore abissale come quello dato dalla perdita di un figlio?
Si può pianificare tutto di una vita normale, ma poi ti può capitare una cosa che non ti permette mai più di ritrovare il tuo equilibrio: a questo mi serviva la teoria dei giochi.
Tutti aspiriamo a vivere in equlibrio, mentre Michele e Larissa ormai aspirano solo ad arrivare al termine delle loro giornate.
La morte improvvisa sconvolge qualsiasi equilibrio, rispetto a una morte annunciata da una malattia e alla quale si può, in una certa misura, prepararsi.
Pensi che si possa sopravvivere nel tempo a una tragedia simile?
È difficile, ma non impossibile, che il tempo possa guarire le sofferenze.
Forse Michele e Larissa non sono in grado di superarle perché queste sofferenze sono arrivate tardi nella vita, mentre per i personaggi più giovani può esserci una possibilità.
Ci sono persone che riescono a superare tragedie che sembrano infinite, se hanno il tempo per farlo.
Tutti i suoi personaggi - non solo Michele - sono descritti più attraverso i dialoghi e le azioni, con un linguaggio quasi cinematografico. Ha preso spunto da persone reali che ha conosciuto o si tratta di sintesi di più stimoli?
I personaggi si costruiscono nella mia testa più o meno allo stesso modo, a meno che io non abbia in mente una persona particolare a cui attingere, cambiandole il nome come faceva Hemingway. Mi è capitato di farlo, ma solo con personaggi secondari, mai con i protagonisti. Si attinge a quello che ci circonda: per essere buoni scrittori occorre essere buoni osservatori e ascoltatori.
Se non ti guardi intorno, non noti le cose e non provi a capire le persone, finisci per scrivere solo di te.
Michele, Larissa e gli altri sono persone nate così come appaiono, nutrite a mano a mano che li conoscevo io stessa. Anche Dacia Maraini diceva che i personaggi prendono la loro forma ed il loro carattere, e guai ad andare contro la loro personalità. È vero che i personaggi hanno una loro personalità, quindi i casi sono due: o c'è qualche forma di channelling, o li abbiamo tenuti in testa per così tanto tempo che ormai sono pronti da inserire dentro una storia.
Io non ho molta immaginazione, quindi prendo qui e là un gesto, un profumo, una sensazione.
Ogni opera narrativa contiene per forza qualcosa di autobiografico, altrimenti non può essere reale.
Per quanto riguarda i dialoghi, a me piace moltissimo ascoltare le persone e sentire come usano le parole. A volte il rischio per uno scrittore è far parlare tutti nello stesso modo, ad esempio quando ci sono persone della stessa età che vivono insieme da tanto tempo, e penso ai miei geinitori che spesso lo fanno, perché convivono da tanti anni.
Mi piace il dialogo, e mi piace leggerlo quando è fatto bene. Quando hai in mente con chiarezza un personaggio lo fai anche parlare con specificità.
Fino a quando non ho esattamente in testa il personaggio e la storia è impossibile che io mi metta a scrivere, perciò tengo dentro di me le storie per tanto tempo prima di metterle su pagina.
Quindi per lei è faticoso scrivere un romanzo o è una cosa che le viene naturale?
Questo libro è stato molto faticoso, ma dipende sempre da quello che scrivi: ci sono storie più facili da scrivere, non necessariamente perché siano meno dolorose. Per esempio "L'amore involontario", che è una storia che mi è molto vicina perché parla di un fratello e una sorella e nella quale ho messo molto di mio fratello, è stato in un certo senso più doloroso ma più facile da scrivere, perché si trattava dei nostri ricordi, di quando eravamo piccoli, e ci sono aspetti della personalità di mio fratello che avevo ben chiari in testa, anche se poi li ho inseriti in una storia che non è la nostra.
Questo mi è costato più fatica proprio perché non è la mia storia e perché ho veramente sofferto scrivendola, ma mi fa piacere pensare di aver fatto un progresso nella scrittura.
Come si è sentita quando ha scritto la parola fine?
Da scrittore, sai benissimo quando stai finendo il tuo lavoro ancora prima di ultimarlo, e anzi, ci sono giorni in cui ti dici "oggi lo finisco", perché è una cosa che ti si annuncia: quindi sei in qualche modo preparato. È in parte un sollievo e in parte no, perché personalmente adoro la routine della scrittura. Mi piace moltissimo svegliarmi la mattina e scrivere a lungo quando non devo andare a insegnare. Sono le famose ore che uno passa a fare quello che ama, e per me si tratta della scrittura.
Che poi, quando arrivi alla fine, il libro è tutt'altro che finito: devi riscriverne l'inizio perché per quanto mi riguarda non va già più bene rispetto a ciò che ho scritto dopo, e poi va comunque aggiustato anche nel mezzo. Certo, arrivare al termine della prima stesura significa comunque togliersi un peso di dosso.

Ultima domanda: quanto pesano gli influssi americani sulla sua scrittura?
Sullo stile, di sicuro. Quello che a me piace di tanta letteratura anglosassone, non soltanto americana, e di certa letteratura francese è lo stile essenziale, che trovo racconti meglio una storia rispetto invece a uno stile più barocco e fiorito.
Sulle storie, però, no: vivo negli Stati Uniti ma non posso raccontare una storia americana, perché non sono nata lì. Posso raccontare di me o di personaggi che mi somigliano che vivono lì, perché ormai vivo a New York da quasi vent'anni e la conosco bene, e non faccio del turismo narrativo se ne parlo. Ma sono italiana e devo mettere insieme due identità e due linguaggi. Se gli americani mi hanno influenzata (sopratuttto Carver), non è stato riguardo le tematiche. Noi non abbiamo le stesse pulsioni della società americana perché noi siamo una piccola provincia, con le sue pulsioni e le sue complessità, e mi sentirei ridicola a fare un romanzo americano.
Ci sono delle scrittrici americane visionarie che amo molto, come Jennifer Egan, e me le godo, sopratuttto perché offrono al lettore un punto di vista femminile ma non sdolcinato.

Ho volutamente rimosso i troppi spoiler perchè "Le notti blu" è un romanzo struggente, che graffia l'anima e che va scoperto senza anticipazioni: va assaporato come una tazza di caffè caldo in inverno.
La notizia della sua candidatura al premio Strega mi ha riempita di gioia, e non posso far altro che consigliarvelo e incrociare le dita per l'autrice e il suo bellissimo lavoro!

Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3

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