venerdì 28 settembre 2018

Il pane del diavolo: Valeria Montaldi si racconta, in occasione dell'uscita del suo nuovo romanzo

Una trama che entusiasmerà i lettori de La randagia (Edizioni Piemme, 2016), tra passato e presente, sulle tracce di antiche ricette e di segreti da svelare: Valeria Montaldi è tornata, e lo ha fatto con Il pane del diavolo (Edizioni Piemme), 500 pagine che ci ha raccontato a Milano.

Iniziamo proprio da questa struttura ricorrente negli ultimi romanzi, che vede una doppia trama tra passato e presente, e la coesistenza di una forte connotazione storica e di un'indagine appassionante.
Ho fatto questa scelta perchè ritengo che parlare del passato sia come parlare del presente.
Alessandro Manzoni, scrivendo i suoi Promessi sposi ha dato alle stampe sì una storia ambientata nel '600, dove però parlava della sua contemporaneità, di due secoli successiva.
Studiando l'epoca che più mi appassiona ho riscontrato moltissime concordanze, per lo più negative, con quello che accade oggi, ed è per questo che mi sono decisa a mettere su carta due vicende, e rendere più chiaro e immediato il cogliere queste somiglianze.

Quanto è difficile gestire la stesura di due storie che devono sia incastrarsi alla perfezione, come tessere di un puzzle, sia mantenere entrambe il ritmo che fa sì che siano accattivanti per il lettore?
Non è facile, anzi! 
Sia durante la stesura de La randagia, sia mentre lavoravo a questo romanzo, mi sono detta «e se provassi a scrivere prima tutta la parte storica, e poi tutta quella contemporanea, sistemandole a posteriori?» Non funziona. La storia cresce a mano a mano, e le due parti devono svilupparsi in parallelo perchè l'intreccio funzioni. È impegnativo, ma molto appagante.
Quanto conosce della sua storia, prima di iniziare a scrivere?
Redigo una scaletta, per fissare personaggi ed eventi salienti.
La fine, invece, non la conosco quasi mai.
Lavoro a un libro per circa due anni, o tre: dipende dall'argomento, e dalla sua difficoltà.

Da dove nasce la passione per il medioevo?
Per caso. Ero una giornalista, e intervistavo artisti, architetti, fotografi.
L'editore del giornale per cui scrivevo mi ha chiesto un pezzo su edifici storici e religiosi di Milano, e il lavoro di ricerca mi è piaciuto immensamente.
Da qui, dopo un po', è venuta la voglia di buttarmi e scrivere un romanzo, in cui è fluito anche il mio attaccamento alla Valle d'Aosta.
Il medioevo è un periodo lungo e ricco di contraddizioni, e il suo studio mi ha coinvolta sempre più, abbracciando nuovi luoghi e nuove storie.
Una circostanza curiosa? L'esame di Storia Medievale all'università è stato quello in cui ho preso il voto più basso.

Addentriamoci, senza svelare troppi particolari, nel libro. Il pane del diavolo vede, tra i suoi elementi principali, un ricettario alquanto curioso.
Esiste davvero, conservato in una biblioteca svizzera, ed è uno dei più importanti del periodo (prima metà del 1400). Innanzitutto perchè era il ricettario del maestro di cucina di Amedeo VIII di Savoia, e quindi dà testimonianza di banchetti importanti, per ospiti di spicco.
È difficile da leggere, in franco-provenzale, ma sono riuscita a leggerlo tutto grazie a un colpo di fortuna: è stato disponibile online fino a poco tempo fa, poi è stato ritirato.
Contiene ricette particolari, riprese in parte oggi dagli chef stellati, e riporta con dovizia di particolari sia la preparazione dei piatti sia la loro corretta presentazione.
Ad esempio, veniva portato in tavola un cigno, dopo averlo svuotato, arrostito e farcito nuovamente, e richiuso. Con le sue penne, e tutto. Anzi, si ha notizia anche di un meccanismo pensato per far muovere il cigno e farlo sembrare vivo, in una particolare occasione.
Nel romanzo cito anche il cinghiale sputafuoco, ma vi lascio scoprire di cosa si tratta.
Tutto questo ricorda molto la ricerca e la voglia di stupire degli chef dei nostri giorni.

Anche parlando delle donne, queste concordanze tra passato e presente sono evidenti agli occhi del lettore. Ambientare i suoi libri, o parte di essi, nel Medioevo le permette di raccontare donne le cui vite solo in apparenza sono molto diverse da quelle delle donne contemporanee.
È infatti facilissimo ritrovare le lotte e le ambizioni "nostre", dei nostri giorni.
Da autrice, ma anche da donna, cosa le dà e cosa pensa di poter dare alle donne raccontandone le storie?
Essendo una donna e scrivendo, ritengo che il minimo contributo che io possa dare, a me stessa ma anche al lettore, sia quello di spiegare come la donna sia stata vessata per secoli, ridotta a forza lavoro, fattrice, strega. Un oggetto o poco più. Dalla nostra parte del mondo abbiamo sicuramente una vita migliore, ma non del tutto. La donna, tutt'ora, potrebbe stare meglio di come sta: pensiamo alla parità di stipendi, o alla maternità che ancora oggi penalizza sul lavoro.
Nel suo romanzo le donne vincono in fondo, quasi tutte. Alcune più di altre.
Ma non sveliamo il perchè. Diciamo solo che non è una vittoria spudorata: le sue donne vincono attraverso loro stesse, essendo ciò che sono.

Ringraziando la casa editrice e l'autrice per la splendida occasione di confronto, vi consiglio la lettura di Il pane del diavolo, già in libreria:


1416, Castello di Fénis. Marion è una cuoca straordinaria. Le sue origini saracene ne hanno forgiato il gusto: le spezie, gli aromi, i condimenti insoliti con cui arricchisce i piatti entusiasmano il palato dei nobili commensali riuniti a banchetto. Talento e inventiva, tuttavia, non bastano a farle ottenere rispetto e considerazione: vessata da Amizon Chiquart, il celebrato maestro di cucina del duca Amedeo di Savoia, è costretta a subire umiliazioni continue, accettate sotto l'amara maschera della deferenza. Sì, perché lei è solo una donna e non potrà mai ambire a un ruolo superiore a quello di sguattera. O almeno così crede Chiquart, sottovalutando la tenacia, il coraggio e la rabbia che animano Marion. E soprattutto ignorando che un' inutile saracena sappia leggere e scrivere. L'ultima scelta di una donna coraggiosa, la sua vendetta. 2016, Fénis. Il cadavere ritrovato nel bosco è quello di Alice Rey: la gola squarciata, il sangue che intride ancora la neve. L'indagine sul delitto è affidata al maresciallo Randisi del Comando dei carabinieri di Aosta. Da subito, gli indizi convergono sul marito della vittima, Jacques Piccot, chef stellato del ristorante di proprietà della moglie e appassionato collezionista di antichi ricettari. Le indagini sembrano confermare i primi sospetti, ma un secondo omicidio scoperchia un calderone pieno di segreti, rancori e ricatti che coinvolge l'intero ristorante. E a Randisi non resta che scavare a fondo fra presente e passato per scoprire di quanti veleni sia fatto un pane che ha il sapore del diavolo.

martedì 25 settembre 2018

Innovazione al profumo di rosa: arrivano i Petali Micellari Struccanti Occhi Sensitive di Acqua alle Rose

Un battito di ciglia dura 0,15 secondi. Ogni giorno, apriamo e chiudiamo le palpebre 18 volte al minuto. Uno stress a cui i nostri occhi, e la nostra pelle, sono sottoposti giorno dopo giorno, e che dire del trucco?
Struccare le ciglia e gli occhi alla fine di una giornata intensa è un sollievo, e allo stesso tempo una maledizione: pensate sia possibile contare su uno struccante che sia leggero come uno sguardo felice e facile da usare in un batter d’occhio?

La risposta è sì! Acqua alle Rose ha creato i nuovi Petali Micellari Struccanti Occhi Sensitive, un’innovazione che fa innamorare a prima vista.

I pratici dischetti in tessuto a trama intrecciata struccano delicatamente e a fondo, rimuovendo anche il trucco waterproof  bruciori e rossori.
Il pack salva-freschezza impedisce che secchino prima del tempo, e soprattutto sono idonei anche per i portatori di lenti a contatto.

Ecco come Acqua alle Rose consiglia di utilizzare i Petali Micellari Struccanti Occhi Sensitive:

«Basta appoggiare un petalo sull’occhio chiuso con una leggera pressione e togliere lo sporco con un movimento verso il basso, seguendo la conformazione delle ciglia, poi proseguire nel verso opposto con l’occhio socchiuso e infine pulire la zona sotto l’occhio e l’arcata sopraccigliare.»

Le micelle di cui i petali sono intrisi inglobano e asportano trucco e impurità senza alterare l’equilibrio della pelle, mentre gli estratti di Rosa Antica aiutano a proteggere le cellule della pelle dallo stress ossidativo e dagli agenti esterni.
La nuova formula non contiene alcool, parabeni, saponi ma solo un leggero profumo ipoallergenico e deterge con delicatezza grazie alla tecnologia micellare al 95% di origine naturale.


Petali Micellari Struccanti Occhi Sensitive di Acqua alle Rose sono disponibili a un prezzo consigliato di 6,99€.

«L'umorismo fa parte della vita»: Matt Haig, "Come fermare il tempo" e la scrittura che ti salva

Matt Haig, per chi legge i suoi romanzi dal suo esordio in Italia (era il 2007 e il titolo era La foresta d'ombra, De Agostini), è un autore acuto, brillante, ironico.
Dai peculiari vampiri della sua Famiglia Radley (Einaudi) allo splendido Gli umani (Einaudi), passando per i libri per l'infanzia che gli sono valsi il plauso del pubblico e della critica, Matt Haig era atteso, anzi, attesissimo, con il suo Come fermare il tempo (Edizioni E/O).
E quale cornice migliore di Mantova, e del Festivaletteratura, per presentarlo ai lettori?


Proprio a Mantova ho potuto incontrarlo, ed ecco cosa ci siamo raccontati!

Come fermare il tempo è un romanzo affascinante, e presenta così tanti elementi (salti temporali, quasi-immortalità, amore).
Partendo da “La famiglia Radley” e arrivando al tuo ultimo lavoro, ciò che non manca mai nei tuoi lavori è un uso sapiente dell’ironia. Partiamo da qui, dall’umorismo.
Credo che a volte i miei libri siamo deliberatamente divertenti, pensando anche a “Gli umani”, altre invece non è il mio obbiettivo principale, ma è vero: l’ironia è sempre presente, nei miei romanzi.
In Inghilterra tendono a incasellare autori e opere letterarie, come se si potesse essere autori seri o autori divertenti.

L’umorismo, invece, fa parte della vita.
Il mio è leggermente più nero, da “pesce fuor d’acqua”, e questo a causa della mia depressione.
Stranamente, perchè la depressione è qualcosa di orribile: quello che la depressione fa, però è renderti un pesce fuor d’acqua nel tuo stesso ambiente, e farti sentire come se il mondo andasse avanti con tutte le sue piccolezze… mentre ti senti come se il tuo cervello andasse a fuoco.
Ma l’umorismo fa parte della vita, ed è imprescindibile anche in un’opera letteraria.

Questo vale anche per un’autrice come Jane Austen: romanticismo a parte, è impossibile pensare ai suoi romanzi senza che i personaggi più buffi vengano in mente all’istante. Utilizzava l’ironia anche nel fare una critica feroce della società contemporanea, e nel parlare della condizione della donna del suo tempo.
Assolutamente, c’è molto umorismo in inglese in Jane Austen, e non solo in lei.
Anche nei lavori delle sorelle Brontë, sebbene ci si concentri maggiormente sul loro lato più “gotico”.
Credo che, in questo, essere inglese è ciò che ti salva: basta pensare che in Inghilterra fa freddo per nove mesi, Come faremmo senza umorismo?

Pensando ai tuoi personaggi, una caratteristica che accomuna molti di loro è che non sempre è facile per il lettore entrarvi in sintonia. Anche pensando a “Come fermare il tempo”, il tuo protagonista presenta molti lati oscuri, molte zone d’ombra.
Certo, alla fine è impossibile non amarlo.
Credo che sia una buona cosa avere un protagonista che cambi, e soprattutto provocare un cambiamento nel lettore. Nel caso di “Come fermare il tempo”, volevo partire da una situazione di scoramento, e far sì che il mio protagonista trovasse dentro di sé la speranza e la forza per cambiare il suo destino.

“Come fermare il tempo” riflette alla perfezione il modo di vedere l’immortalità (o la quasi immortalità) oggi. Se nell’antichità se ne esaltavano gli aspetti positivi ponendola sullo stesso piano del potere, negli ultimi quindici anni abbiamo visto un capovolgimento. Per i ragazzi, “Twilight” è stato sicuramente il caso più eclatante, ma pensiamo anche al successo di film come “Adaline - L'eterna giovinezza”: in entrambi i casi abbiamo un’immortalità che provoca una profonda solitudine.
Mi trovi perfettamente d’accordo, Tom è una persona sola. Così come mi sono sentito solo io nei momenti peggiori della mia depressione, e anzi, credo che scrivere questo romanzo sia stato catartico e mi abbia fatto apprezzare di più la mia mortalità.
Molto di ciò che facciamo, sperimentiamo e creiamo dipende dalla nostra mortalità, e dalla nostra consapevolezza di essa. É ciò che ci fa apprezzare la nostra vita, e non ce la fa dare mai per scontata.

La mortalità è anche ciò che ci rende consapevoli delle conseguenze delle nostre azioni: dev’essere difficile quando il tuo orizzonte è così lontano: la tentazione è di scrollare le spalle e dire «Ma sì, tanto tra trecento anni non importerà più a nessuno!»
Assolutamente, credo che questo sia collegato anche alla mia esperienza con la depressione.
Il tempo sembrava trascinarsi e dilatarsi all’infinito.
Mi dicevano «l’anno prossimo non ti sentirai così», ma per me l’anno seguente era talmente lontano da non riuscire nemmeno a immaginarlo.
Tom vive a lungo, ma dobbiamo considerare anche la relatività del tempo: nel momento in cui confronta la sua vita a quella delle persone attorno a lui, gli sembra infinita. Non solo lunga.


Scrivere Come fermare il tempo ti ha permesso di avere una sorta di macchina del tempo privata, e viaggiare avanti e indietro nel tempo a tuo piacimento.
E’ stato difficile gestire i salti temporali e geografici, facendo in modo che ogni tessera del puzzle si incastrasse alla perfezione con le altre? Ci sono un tempo e uno spazio che vorresti aggiungere, se tu potessi tornare indietro e fare una modifica?
Difficile? Oh, sì! Era decisamente al di fuori della mia confort zone, e molto difficile. Non ho scritto il romanzo rispettando la cronologia egli eventi, ho scritto a blocchi che poi ho spezzato e riassemblato più volte. Questo modo di costruire il romanzo mi ha permesso di dare al lettore la sensazione che tutto ciò che per noi è storia antica per Tom sono ricordi, e si fondono col presente in un modo per noi incomprensibile.

Penso che se avessi la mia personale macchina del tempo mi piacerebbe andare ancora più indietro, all’antica Grecia o all’antica Roma. Credo però di avere incluso nel romanzo, pensando alla vita di Tom, ogni mio periodo storico e luogo preferito. Forse avrei voluto passare più tempo nella Hollywood degli anni Venti.

Ho letto che ti definisci disorganizzato, ma richiederà una discreta capacità di organizzare il proprio lavoro, scrivere un’opera così.
Il mio problema non sta tanto nella disorganizzazione (che confermo), quanto nella mia difficoltà nel separare lavoro e privato. Credo sia un problema comune a chi lavora da casa, perchè se lavori a casa, casa tua è il tuo ufficio.
Per me è molto difficile “spegnermi”.
Cerco di fare il più possibile tra le otto e le due, e anche se non ho un minimo di parole che esigo di scrivere ogni giorno, ogni giorno scrivo qualcosa.

Impossibile non chiederti che lettore sei: cosa stai leggendo in questo periodo?
Ho appena finito di rileggere “Le città invisibili” di Italo Calvino (Mondadori), uno dei miei preferiti!
Al momento sto portando avanti quattro libri, ma quello che mi viene in mente è “La realtà nascosta” di Brian Greene (Einaudi), un saggio sugli universi paralleli.
Un libro che vorrei leggere a tour finito è il primo volume della saga “L’attraversaspecchi” di Christelle Dabos (Edizioni E/O).

Grazie a Edizioni E/O e a Matt Haig per la splendida opportunità, e torno a consigliarvi sia "Come fermare il tempo", sia la prossima lettura di Haig, "L'attraversaspecchi. Fidanzati dell'inverno" di Christelle Dabos che vi avevo raccontato qui.

lunedì 24 settembre 2018

«Diffida della scrittura, e abbi fede nella scrittura»: intervista a Pierre Lemaitre

Da poco in libreria con l'atteso I colori dell'incendio (Mondadori), Pierre Lemaitre aggiunge un secondo tassello alla trilogia aperta dal suo Ci rivediamo lassù, che gli è valso il Premio Goncourt nel 2013.
La Parigi degli anni Trenta, l'Europa che avanza inesorabile verso un nuovo conflitto mondiale, una donna che scopre dentro di sè la forza di rendere straordinaria la sua vita ordinaria.
Di questo, di scrittura e di modelli letterari abbiamo parlato insieme a Pierre Lemaitre in occasione del suo passaggio a Milano.


Impossibile non iniziare proprio da Madelaine, dal suo percorso e dalla sua vendetta.
Madelaine è una donna del suo tempo, privilegiata come tante e con le idee proprie della sua epoca. Ha accettato la sua condizione senza discutere.
È una donna comune, e questo per un romanziere è positivo, perchè ha un margine di sviluppo e progresso importanti. È più facile creare un personaggio straordinario partendo da una donna comune, mentre partendo da una donna già straordinaria… che farne?
È una fortuna iniziare con un personaggio alquanto banale.
La mia scelta di Madelaine come protagonista è stata dettata dalla conclusione di Ci rivediamo lassù, e non mi sono ispirato a personalità reali.
Forse, a ispirarmi è stata l’attrice che, nel film tratto dal romanzo precedente, interpreta Madelaine e che ho avuto modo di vedere sul set: ho bisogno di immaginare l’aspetto dei miei personaggi nel dettaglio, e sicuramente vederla ha imposto nella mia immaginazione questo particolare aspetto per Madelaine.

Donna del suo tempo, e che tempo! Un’epoca caratterizzata dalla freddezza, forse, e dalla cupidigia che ritroviamo anche nella nostra.
È un periodo grigio, questo sì. Ma credo che dal punto di vista delle emozioni non ci fosse freddezza, e che venissero vissute appieno: si innamoravano, si odiavano.
È anche un periodo dominato dall’incertezza: cosa diventerà l’Europa? Cosa diventerà la Francia? In quale direzione stiamo andando?
Colpisce il fatto che alla fine del primo conflitto mondiale tutti sapessero in che direzione si stesse andando, e il pensiero dominante fosse “mai più una guerra come questa”. Ed è esattamente questa volontà a determinare il nuovo conflitto.
È un’epoca di incertezza, e ho voluto scrivere un romanzo sull’incertezza.

Nei suoi romanzi, soprattutto in “Ci rivediamo lassù” e in “I colori dell’incendio”, ho trovato spesso dei paradossi positivi: pensiamo a Paul, che crediamo morto nelle prime pagine e condannato a  una vita da infelice in quelle immediatamente successive, e che invece diventerà una figura di spicco, e un vero e proprio genio del marketing - proprio lui, che rischiava di non riuscire a comunicare! È stata solo una mia impressione?
No, anzi, ha ragione!
Questo romanzo è stato concepito come una variazione sul tema della resilienza.
Ci sono molti personaggi che riusciranno ad avere successo nonostante le avversità.
La riuscita di Paul è una di queste figure della resilienza, che ritroviamo anche in Madelaine, in Vladi, in Solange.
Se con le mie donne ho voluto dare un ritratto il più completo possibile della condizione femminile negli anni Trenta, con queste quattro figure ho voluto esplorare il tema della resilienza.

I colori dell’incendio è il secondo volume di una trilogia, ma vista la complessità del romanzo (e del precedente), era quest il suo progetto sin dall’inizio? O è qualcosa che è venuto dopo?
L’idea di una trilogia è nata quando ho iniziato a riflettere sulla possibilità di dare un seguito a Ci rivediamo lassù. Solo chiedendomi che tipo di seguito volessi dargli, ho capito che una trilogia mi avrebbe permesso di realizzare una sorta di fotografia del periodo tra le due guerre.
Mi rendo conto di creare storie complicate, e io stesso sono preso dal panico di fronte a esse.
Da storie complicate nascono romanzi complicati, e il mio lavoro consiste nel renderle di facile comprensione per il lettore. La soluzione sarebbe scegliere storie semplici, ma non ne sono capace.


Pensando alla complessità dei suoi lavori, quando inizia a scrivere una storia sa già cosa accadrà, e quanto nel dettaglio? Molti autori dichiarano di farsi guidare dai loro personaggi, è così anche per lei?
Il personaggio non mi parla, anzi. Il capo sono io, e sono io a decidere cosa il personaggio faccia.
Ma capisco il motivo della domanda: ho letto anch’io, in un’intervista a Fred Vargas, che “i personaggi sfuggono di mano”, ma per me non è possibile.
Questo perchè il personaggio è lo strumento di una storia: io so dove va la mia storia, e il mio lavoro è fare in modo che le azioni dei personaggi raccontino quella storia. Non un’altra.
Se mi sfuggissero di mano, non saprei più che storia stiamo raccontando.

Ho due massime: diffida della scrittura, e abbi fede nella scrittura.
Diffida della scrittura, ovvero non cominciare a scrivere un libro se non ne conosci bene la trama. Altrimenti non sai che libro scriverai, e non padroneggerai l’argomento. Non bisogna pensare che la scrittura faccia il lavoro al posto dell’autore. Devo conoscere almeno la scena di apertura, il finale e gi eventi principali: la colonna vertebrale del romanzo, insomma.
Abbi fede nella scrittura, perchè non puoi prevedere un piano troppo dettagliato. Se ci sono dei vuoti, puoi fare affidamento sulla scrittura per fare emergere elementi inaspettati che ti sorprenderanno.
Bisogna trovare il giusto equilibrio tra preparazione della struttura e scrittura.

Parlando dei suoi personaggi, non è assolutamente clemente nei loro confronti.
Ho la reputazione di essere molto cattivo nei confronti dei miei personaggi, ed è una reputazione che merito. Se ne facessi economia, se non facessi accadere loro nulla di troppo doloroso o difficile da superare, non sarebbe possibile ai lettori identificarsi in loro, e provare empatia nei loro confronti.

A tratti la voce narrante sembra strizzare l’occhio al lettore, meccanismo che troviamo spesso nella letteratura francese “classica”. 
Adoravo il momento in cui, nei grandi romanzi francesi dell’Ottocento, l’autore coinvolgeva i lettori.
Alexandre Dumas diceva, ad esempio, «il lettore ricorderà senz’altro che…».
Questo libro è anche un omaggio alla letteratura francese del XIX secolo, e ne riprende qualche piccolo espediente.
Da un altro lato, sono un autore che potrebbe essere definito brechtiano. Bertolt Brecht diceva «io metto in scena il teatro ma voglio che il pubblico si ricordi sempre di essere a teatro. Non voglio che se ne dimentichi, perchè dimenticando la propria condizione ci si fa imbrogliare dal sistema.» Voleva spettatori lucidi e consapevoli della loro condizione.
Allo stesso modo voglio che i miei lettori siano consapevoli che quella che stanno leggendo è solo una storia, e che non devono credere che sia reale. Non voglio imbrogliarli.

In un’intervista ha dichiarato che, in Francia, solo tre cose ti cambiano radicalmente la vita: il colpo di fulmine, l’infarto e vincere il premio Goncourt.
Com’è stato rimettere mano a una storia che le ha dato così tanto, e questo successo ha cambiato il suo modo di scrivere?
Colpo di fulmine fatto, il premio Goncourt l’ho vinto, quindi ora aspetto l’infarto!
Devo stare attento!
È vero, dopo il successo di Ci rivediamo lassù non è stato facile rimettermi a scrivere.
Credo che tutti gli autori di successo vivano questa condizione di confusione, in cui ci si chiede se si ha ancora qualcosa da dire, se si perderanno lettori, se si riusciranno a pagare le tasse.
Al tempo stesso, auguro a tutti un successo come il mio, perchè le paure “del dopo” sono paure da ricchi, da persona privilegiata.
Detto questo, ci vuole tempo per digerire il successo e un pizzico di coraggio per rimettersi al lavoro!

Grazie a Mondadori e a Pierre Lemaitre per la splendida opportunità di confronto.
La recensione di I colori dell'incendio di Pierre Lemaitre (Mondadori) è disponibile qui.

venerdì 21 settembre 2018

"EVERLAND. Attraverso lo specchio" di Luigi Nunziante

Leggere "EVERLAND. Attraverso lo specchio" è come fare un tuffo nel mondo delle favole che costella i sogni dell'infanzia. Lo stesso immaginario fantastico che ha reso un successo editoriale "La terra delle storie" di Chris Colfer o "Once Upon A Time", serie che dopo sette stagioni non mostra segni di cedimento, alimenta il mondo delle storie di Luigi Nunziante, e non deluderà gli amanti di favole e retelling.

«Tutte le storie iniziano da qualche parte.
Quella di Lara, una giovane adolescente di Denver,
inizia nel preciso istante in cui viene costretta dal padre
a trasferirsi dai nonni a Wichita, dove dovrà necessariamente
ricominciare “da capo” per superare il lutto per la perdita della madre.
Arrivata nella nuova casa, Lara mai avrebbe immaginato che
l’amicizia con il giovanissimo vicino appena conosciuto,
di nome Damian, l’avrebbe catapultata in una folle e pericolosa avventura
in un altro mondo di nome Everland.
Tra amori e incantesimi e tanti personaggi, più o meno noti,
Lara e Damian dovranno far ritorno a casa,
ricorrendo alla magia... in un mondo dove la magia non esiste.»

Lara e Damian si incontrano in quello che potrebbe essere il momento peggiore, entrambi chiusi in una bolla e privi della voglia di aprirsi all'altro.
Solo scoprire nell'altro un riflesso del proprio dolore li avvicina, perchè apre la strada verso la comprensione reciproca: perdere qualcuno segna nel profondo, e solo chi vive lo stesso dolore comprende davvero cosa si provi.
E forse è anche per questo che, precipitati all'improvviso (durante quella che doveva essere un semplice serata al parco divertimenti) in un mondo parallelo in cui "tutte le storie sono vere", si rivelano in grado di affrontare insieme l'inaspettata avventura.
Perchè Damian sia stato costretto a varcare la soglia di Everland va scoperto affrontando la lettura, una lettura che scivola veloce tra le dita, pagina dopo pagina, grazie a capitoli brevi perfetti per chi legge fuori casa.
La prosa semplice, senza fronzoli e un lessico adatto ai più giovani rendono "Everland. Attraverso lo specchio" l'avventura letteraria perfetta dai dodici anni in su.

Impossibile, per le lettrici, non ritrovarsi in Lara, che condivide le principali doti del maghetto inglese più famoso al mondo: coraggio e lealtà. Lara sarebbe stata una Grifondoro perfetta.
La sua storia è ricca di colpi di scena, di cambi di rotta e di decisioni da prendere, e il suo viaggio attraverso Everland una perfetta metafora dei tumulti dell'adolescenza.

Nello spirito del retelling e dei modelli letterari da cui prende ispirazione, ritroviamo in "Everland. Attravrso lo specchio" i personaggi delle favole, dai più famosi ai meno noti, proposti in una chiave più - o meno - originale. Di ognuno di loro, però, è stato mantenuto il tratto distintivo che ne permette l'identificazione, rendendo la lettura un vero e proprio gioco, una caccia al personaggio che divertirà i lettori di ogni età. La scoperta delle storie personali di ogni personaggio è sicuramente uno dei punti di forza del romanzo, e uno degli elementi trainanti durante la lettura.

E l'amore? L'amore c'è, e tanto, ma in ogni sfumatura. Non solo nella sua accezione più romantica, ma anche in quella più tenera dell'amicizia, e in quella dell'affetto famigliare.
Di famiglie ne incontriamo tante, ed è impossibile non vedere in questo un messaggio per Lara, che deve imparare ad accettare la sua "nuova" famiglia, in cui manca una persona, sì, ma che non smette di essere tale.

Se in questo primo capitolo delle avventure di Lara e Damian ci si diverte e si ride, ci si emoziona e si piange, una cosa va tenuta a mente: è solo l'inizio.
Il viaggio dei giovani protagonisti è appena agli inizi, e chissà dove porterà i lettori!


Everland. Attraverso lo specchio di Luigi Nunziante (Decima Musa Edizioni) sarà in libreria dal 27 settembre.

martedì 18 settembre 2018

Intervista a Jean-Gabriel Causse: una vita a colori è una vita felice

In libreria da maggio con "La felicità ha il colore dei sogni", (HarperCollins), Jean-Gabriel Causse è stato ospite a Milano de "Il tempo delle donne", e abbiamo potuto incontrarlo e scoprire qualcosa di più sul ruolo dei colori nella nostra vita.


Sembra che ci siamo ingrigiti un po', e mi chiedevo se questo ritorno al bianco e nero fosse un effetto collaterale del tentativo di abbracciare il minimalismo. Soprattutto pensando a fenomeni come Marie Kondo, o la tendenza capsule-wardrobe.
Inoltre, pensando all'estremo opposto, il colore può essere troppo? E se sì, cosa succede?
E' qualcosa che mi sento dire di frequente, ma credo sia vero il contrario.
Basta pensare a un luogo caratterizzato dai colori forti, come ad esempio i Caraibi, caratterizzati da mille sfumature di verde, di blu, di rosso. Crede che possa essere troppo?
In realtà studi scientifici hanno dimostrato che sono i luoghi bianchi e neri ad annoiarci di più e a deprimerci: dovremmo prendere le distanze da questa combinazione.
Circa tre quarti della popolazione globale ritiene che vivere in un ambiente ricco di colore faccia sentire bene.
E come invertire questa tendenza al bianco e nero?
Suggerendo l'uso dei colori nel modo giusto. C'è un movimento di fondo, sempre più forte negli ultimi anni e nato nella Silicon Valley, che sostiene fermamente l'utilizzo di colori vivaci anche all'interno delle aziende, perchè rendono più produttivi i dipendenti.
Suggeriscono anche "un'uniforme" colorata, che non sia il completo nero o grigio.

Color Designer di professione, e autore di un romanzo in cui ai colori spetta il ruolo da protagonisti: com'è stato far confluire le sue conoscenze tecniche, e scientifiche in quella che è, in fondo, una storia di pura invenzione?
Come si coniugano narrazione e competenza tecnica?
Ho voluto raccontare questa storia per far comprendere il potere che hanno i colori, la loro influenza sulla nostra vita. Ho scelto il romanzo per poter raggiungere più lettori possibili.
Quello che voglio dire è che i colori sono fondamentali nei veicolare la nostra gioia, e volevo farlo sì fornendo informazioni tecniche e in modo coerente, ma attraverso una storia.
Ho sviluppato circa cinquanta scenari differenti prima di focalizzarmi sulla storia che è poi diventata "La felicità ha il colore dei sogni".

Quanto di lei ritroviamo nei suoi protagonisti?
Raccontare una storia le ha permesso di raccontare se stesso, magari anche lavorando sui suoi pregi, difetti e aspirazioni?
C'è un po' di me in ogni personaggio, ma non solo: i miei amici, persone incontrate per caso e altri ancora fanno capolino nel corso della narrazione.
All'inizio rivedevo me stesso in Arthur, ma ho finito per riconoscermi di più nella mia eroina: in fondo, portare colore ovunque è anche la mia missione!

Portare il colore equivale a portare la felicità?
Assolutamente sì, è qualcosa che sento ogni giorno, e di cui ho conferma dai miei clienti e dai miei lettori.

Sono curiosa: lavorare con i colori al suo livello permette di avere un colore preferito?
In linea di principio amo tutti i colori, ma il mio preferito dipende dal contesto in cui mi trovo e dal momento della giornata.
Al risveglio amo un arancione caldo, ma mi basta bere un caffè per amare un marrone intenso.
Certo non vorrei bere un caffè arancione!
Grazie davvero a Jean-Gabriel Causse e ad HarperCollins per la splendida occasione di confronto.
Con l'augurio di una vita più colorata, per ognuno di noi.

lunedì 17 settembre 2018

«È la stampa, bellezza!», e su BBC One arriva PRESS

«È la stampa, bellezza! E tu non puoi farci niente! Niente!» esclamava Ed Hutcheson (Humphrey Bogart), e la sua iconica battuta potrebbe essere senza difficoltà alcuna (copyright a parte) il sottotitolo di PRESS, ultima creatura targata Lookout Point Ltd. in onda su BBC One.

Premessa: partendo dalla rivalità di due quotidiani inglese, The Post e The Herald, e sul loro affrontare il cambiamento di ritmi e di pubblico dovuto al web. The Herald è un quotidiano tendente a sinistra, The Post un tabloid, e nel corso della miniserie si occupano delle stesse storie, permettendo agli spettatori di vedere due modi assolutamente diversi di fare indagine, di fare informazione e di fare i conti con la concorrenza di internet.

Sei puntate, delle quali due già trasmesse, per raccontare il mondo del giornalismo d'assalto, della caccia alla notizia, del «dovete scoprire tutto su quest'uomo!» esclamato battendo il pugno sul tavolo.
Quel giornalismo che ha un gusto retrò, in un momento storico che vede articoli impostati copiano parola per parola un'ANSA e siti di quotidiani nazionali fin troppo generosi con refusi ed imprecisioni, ma che forse proprio per questo non smette di affascinare.


PRESS cerca di portare sul piccolo schermo ogni aspetto dell'attività giornalistica, dalle riunioni di redazione alle crisi personali. Cominciando da quella di Holly Evans (Charlotte Riley), news editor all'Herald che da troppo tempo non segue e porta sulla carta una storia scritta di suo pugno ma che torna a farlo quando la sua coinquilina viene investita da un'auto che non si ferma a prestare soccorso.
O da quella di Duncan Allen (Ben Chaplin), editor del Post che si trova ad affrontare la fine del suo matrimonio e un cambio di rotta nella scelta dei contenuti da pubblicare sul giornale che dirige.


Non manca un personaggio che permetta al pubblico più giovane di rivedere, almeno in parte, la propria voglia di sfondare nel mondo del lavoro, e si tratta di Leona Manning-Lynd (Ellie Kendrick), junior reporter all'Herald divisa tra la personale inclinazione al restare in disparte e la voglia di avere l'occasione di mettersi alla prova.

Il ritmo incalzante e il sempre fluido passaggio da una storia all'altra, e da un personaggio all'altro, rendono PRESS una serie che, se disponibile su Netflix, sarebbe facilmente fruibile in un'unica visione: è impossibile arrivare alla fine di una puntata e non bramare la successiva.
Così come è impossibile non essere, ancora oggi, affascinati dal mondo della caccia alla notizia.
Siete pronti a camminare per i corridoi delPost e dell'Herald?
Mettetevi in marcia, perchè è un mondo in cui si corre. Per davvero.

venerdì 14 settembre 2018

Confessioni di un neet: intervista a Sandro Frizziero

Sapete chi sono i neet? Se ne parla poco, fatta eccezione per qualche articolo tappabuchi sulle testate web, ma quella dei neet è forse la categoria di individui più a rischio: sono coloro che non studiano, non lavorano e non cercano attivmente di fare nessuna delle due cose. Sono quelli che hanno gettato la spugna, delusi da una società che non include e da un mondo del lavoro che certo non facilita l'avvio di una carriera professionale.
Di loro (e non solo) parla anche "Confessioni di un neet", romanzo d'esordio di Sandro Frizziero (Fazi Editore), ed ecco cosa ci ha raccontato l'autore sul suo romanzo, la scrittura e l'umorismo.

Nel tuo romanzo, racconti una categoria di persone spesso trascurate dalla cronaca e dalla stampa: si parla di disoccupazione e di studenti, o di cervelli in fuga, ma non di chi non rientra in nessuna di queste caselle.
Pensi che derivi anche da questa mancanza di considerazione l’alienazione del Neet?
Ogni Neet si sente solo, questo è sicuro. Che faccia una vita da hikikomori, che decida cioè di rinchiudersi in camera davanti al pc, o che ami bighellonare in città andando da un bar all’altro, magari giocando al videopoker, il Neet si sente solo e poco considerato. Certo, qualcuno potrebbe sostenere che questa sua particolare situazione sia il risultato, oltre che di scelte fallimentari, anche di una certa indolenza, ma generalizzare è sbagliato. Alcune persone, con delle sfortunatissime se non tragiche storie alle spalle, meriterebbero certamente più empatia e comprensione.

Quello del social network usato per proiettare una versione fasulla e diversa di se stessi sul mondo è un tema caldo, anzi, caldissimo. Credo che sia facile per i lettori ritrovare, nel “tuo” Neet, almeno un paio di punti di contatto. Ma come ci si accorge che, a forza di fingere, si sta perdendo di vista il nostro io vero? Qual è il punto di rottura?
Nel momento in cui ci poniamo in relazione con gli altri in un certo modo fingiamo, tentiamo di costruirci un’immagine di noi stessi che corrisponda alle nostre aspirazioni e ai nostri modelli. Ciò avviene attraverso l’abbigliamento, il modo di parlare, la gestualità. Nei social questa dinamica è più evidente e più intenzionale. La “vetrinizzazione” di cui ha scritto il sociologo Vanni Codeluppi, è, contemporaneamente, esposizione dei momenti più intimi della vita e una sorta di marketing di se stessi. Tuttavia non è detto che il nostro “io vero” sia quello al di fuori dei social. Pensiamo a una persona pacata, educata nel parlare, apparentemente rispettosa degli altri che poi, una volta a casa, si lascia andare a commenti razzisti sui social. Qual è il suo “vero io”?


Il tema della responsabilità, nel tuo romanzo, è affrontato da un punto di vista interessante. Se all’inizio è facile pensare che sia il Neet a non volere impegni, è facile anche cambiare idea leggendo, e realizzare che la sua, in fondo, è una reazione al mondo esterno che non si prende nessuna responsabilità nei suoi confronti.
È una sensazione comune a quella dei precari, dei lavoratori con contratti fantasiosi che portano a tutto tranne che all’assunzione, e dei disoccupati.
Riesci a vedere, nel futuro, un momento in cui ci assumeremo più responsabilità in questo senso, o pensi che la strada sia ancora lunga?
Ho pensato a un personaggio del genere proprio per creare nel lettore un sentimento di attrazione e repulsione. Lui è antipatico, misantropo, fatalista, nichilista; sembra che la situazione difficile di cui è vittima sia in gran parte il risultato delle sue scelte. Proseguendo la lettura, cercando di andare oltre le sue boutade, però, bisogna riconoscergli una certa intelligenza, una certa capacità di demistificare i luoghi comuni, i valori su cui basiamo la nostra vita e che sono tutt’altro che immodificabili. Mi piacerebbe, dunque, che questo personaggio facesse nascere, più che un senso di empatia, alcuni dubbi in chi lo incontra nel mio romanzo.
Non sono un esperto del mercato del lavoro, ma ciò che vedo parlando con molti giovani è che sempre più alcune logiche di sfruttamento vengono accettate come se fossero normali, pienamente giustificabili nell’ottica del guadagno. L’incremento dei cosiddetti “lavoretti”, a cui molti si aggrappano per vivere, non mi lascia davvero ben sperare. Bisognerebbe recuperare il ruolo sociale del lavoro, ma sul come e sul quando non posso fare previsioni.

A rendere il tuo libro una lettura da consigliare è anche il tuo uso singolare dell’ironia, e quindi ti chiedo: qual è il tuo rapporto con l’umorismo, e quanto è difficile essere divertenti scrivendo?
Maneggiare il registro dell’ironia è difficilissimo e non sempre è un’operazione destinata al successo. L’ironia, soprattutto quando è sottile, può essere difficile da comprendere perché non tutti colgono le provocazioni e spesso si rischiano fraintendimenti e incomprensioni. D’altronde, ironia e umorismo producono uno spazio interessante tra il significato letterale di un testo e il suo contenuto che permette di aprire prospettive nuove.

Qual è il messaggio che vorresti trasmettere a chi scoprirà il tuo romanzo, e a tutti i Neet là fuori?
Il mio romanzo non ha certo l’ambizione di trasmettere un messaggio, soprattutto edificante, al lettore; e neppure mi sento in grado di giudicare la vita e le scelte degli altri. Posso solo dire a chi si sente sfiduciato, soprattutto se molto giovane, che ognuno trova la propria strada, prima o poi. Senza cadere nella facile retorica del successo a tutti costi, del mettersi in gioco, del credere ai propri sogni (che poi è quella che canzono nel libro), occorre credere che con pazienza e sacrifici qualcosa di buono si possa costruire e, dal mio punto di vista, ciò è vero proprio perché il momento storico è difficile. Sarei felice se, leggendo le paradossali e deliranti invettive del protagonista, il lettore vi riconoscesse qualcosa di vero, un’ulteriore chiave di lettura della realtà a cui magari non aveva pensato.

Confessioni di un neet di Sandro Frizziero (Fazi Editore) è in libreria.

venerdì 7 settembre 2018

Elena Triolo racconta (e disegna) l'ansia

Elena Triolo: un nome, una garanzia.
Una delle fumettiste più amate, perchè è impossibile non ritrovare se stesse nelle sue buffe protagoniste di carta e inchiostro alle prese con la linea, gli amori, le amiche o lo shopping.
Stavolta, però, ci racconta un lato di noi stessi sul quale è spesso difficile scherzare, e riesce a strapparci una risata sin dalle prime pagine.


Ecco cosa ci ha raccontato Elena Triolo su Ansia (HOP! Edizioni), il suo rapporto con l'agitazione e l'evoluzione dei suoi disegni!

Raccontare l'ansia divertendo i lettori e allo stesso tempo rispettando le sensazioni di chi è, effettivamente, ansioso: quanto è stato difficile (e quanta ansia ti ha messo addosso)? 
Credo che l'Ansia vada presa con ironia e che chi è ansioso sia effettivamente tragicomico di suo, in pratica uno spettacolo da guardare. Rispettare le sensazioni di chi soffre d'ansia è stato facile dato che ne soffro pure io. Non direi che mi ha messo ansia addosso, piuttosto direi che me l'ha levata!

Ho adorato il look che hai regalato ad Ansia: da dove è nata la scelta di rappresentarla così?
L'idea dell'abito vittoriano nasce dalla mia passione per la moda e in particolare per la storia del costume. Lady Ansia ha l'aspetto fisico della protagonista perché del resto è una sua creatura ma indossa uno scuro ed opprimente abito ottocentesco perché allo stesso tempo è minacciosa e soprattutto angosciante, come l'idea di vivere in un'epoca in cui non esistevano antibiotici o in cui potevi morire bruciato se passavi troppo vicino ad una candela.

Impossibile non ritrovare almeno un po' di se stessi nella tua ansiosa protagonista, e sono curiosa: sei una persona ansiosa? Come immagini la tua, di ansia?
Sono ansiosa a periodi, come tutti, ma per le cose più assurde: l'uscita di un mio libro non mi rende ansiosa, nemmeno le presentazioni o le consegne urgenti. In queste situazioni sono l'emblema della buddità. Ma se devo fare il saggio del corso di teatro davanti a 20 persone vado in paranoia due settimane prima. La mia Ansia è come la vedete, supponente, altezzosa e vittoriana.

Quanto è cambiato il tuo modo di disegnare nel tempo, e quanto questo titolo ti ha cambiata? Vedi l'ansia e te stessa in modo diverso?
Il mio modo di disegnare si è fatto via via meno realistico e il segno forse un po' più graffiante e meno ingenuo ma questa forse è un'evoluzione (se di tale si può parlare) che avevo già fatto con il libro precedente "Coco. Vita di Coco Chanel". Più che vedere l'Ansia e me stessa in modo diverso posso dire di conoscerla e conoscermi meglio quindi so esattamente come prenderla e come prendermi.

Hai una sezione preferita all'interno di questo volume? Perchè?
La mia sezione preferita è quella sull'Ansia da bambina/ragazzina, è stato divertentissimo crearla.

Puoi già anticipare qualcosa dei tuoi prossimi lavori? C'è qualche idea su cui ti piacerebbe lavorare?
In uscita a fine mese c'è la prima storia breve scritta e disegnata da me (in precedenza ho lavorato ad un paio di graphic novel ma erano sempre scritti da altri).
Si tratta di una storia realizzata per Manticora Autoproduzioni ambientata in epoca vittoriana.

Grazie a Elena Triolo e a HOP! Edizioni per la disponibilità: Ansia è superconsigliato, anche se c'è un rischio. Potreste affezionarvi a lei e non farla andare più via!

mercoledì 5 settembre 2018

Come diventare una buona capitana: la lezione (fantasy) di Sarah Driver

Sarah Driver ha firmato una delle trilogie fantasy per ragazzi più attese del 2018, e La predatrice dei mari (Rizzoli), il primo volume, è uno dei titoli "caldi"dell'autunno.

La Predatrice altro non è che il veliero che, sotto la guida di Capitan Codibugnola, compie scorribande nei mari più lontani.
Ma diffidate dalle apparenze, perché Sarah Driver rovescia ogni canone della letteratura piratesca per ragazzi (e non). Il capitano della nave, infatti, è la nonna della protagonista e voce narrante Topo, la cui vita da quando è rimasta orfana è stata spesa nel prendersi cura del fratellino, Passerotto, in attesa che si compisse il suo destino: diventare la nuova capitana della Predatrice.
Quando anche il padre scompare e Passerotto si trova in pericolo, Topo deve prendere in mano la situazione prima del tempo: qualcosa non quadra, e tutti gli indizi conducono a Cervo, il nuovo navigatore che mira al comando della Predatrice.

Consigliato agli aspiranti navigatori, e a chi sogna di solcare i sette mari, ai quali insegna come diventare capitani (e capitane) senza paura.
Topo crede che essere capitana significhi combattere con ferocia e sconfiggere ogni nemico, ma la nonna e gli ostacoli che dovrà affrontare le insegneranno che per essere una buona comandante serve anche lucidità, controllo delle proprie emozioni e raziocinio.
Serve la capacità di non prendere decisioni avventate che potrebbero mettere in pericolo l'intero equipaggio, perché una capitana senza il proprio equipaggio non è niente e perché la stima e il rispetto dei sottoposti non sono assoluti: vanno conquistati.
C'è differenza tra coraggio e irruenza, e tra determinazione e ostinazione.

Leggere Sarah Driver da bambini permette di sognare di solcare i mari misteriosi a caccia di tesori e balene, ma leggerla da adulti è altrettanto speciale: in modo più o meno consapevole, l'autrice regala ai più grandi una lezione di leadership e team building decisamente attuale.
Da scoprire.


La predatrice dei mari di Sarah Driver (Rizzoli) è in libreria.

Pierre Lemaitre, e i colori dell'incendio: il ritorno a quattro anni da Ci rivediamo lassù

Con Ci rivediamo lassù Pierre Lemaitre conquistò i lettori e il premio Goncourt 2013: il romanzo, primo capitolo di una trilogia, è stato tradotto in ventisei lingue e ad oggi le copie vendute nel mondo superano il milione.
Oggi, i lettori italiani possono scoprire I colori dell'incendio, e appassionarsi sin dalle prime righe alla storia di Madeleine e di suo figlio Paul, mentre sullo sfondo Parigi e la Francia intera si avviano inesorabilmente verso un nuovo conflitto mondiale (siamo nel 1927).

Marcel Péricourt è morto, e tutta l'alta società parigina si è radunata per rendergli omaggio. È anche l'occasione per gettare occhiate non tropppo discrete a Madeleine, sua figlia ed erede, perchè è a lei che toccherà amministrare i beni del padre. Un vero e proprio impero finanziario, e chi può dire se ne sarà all'altezza? Di sicuro si sta dimostrando in grado di gestire il funerale.
In effetti, Madeleine è pronta a tutto. Tutto, tranne vedere suo figlio precipitare dalla finestra, atterrando sulla bara e poi sul lastricato.
Una corsa in ospedale, e la diagnosi: il bambino è salvo, sì, ma le conseguenze non saranno indifferenti.
Ed è da qui che inizia il suo percorso in salita, irto di ostacoli e di occasioni in cui la crudeltà e l'avidità altrui riescono quasi ad abbatterne ogni resistenza, senza mai riuscirci.

Quella di Madeleine è una storia di lotta, di affermazione di sè e sì, anche di rinascita.
Di frontiere da superare in treno, due faldoni di document nascosti nella sedia a rotelle del figlio; di uomini pronti a metterla in un angolo (ma nessuno mette Baby in un angolo!); di atti di coraggio quando essere temerari è l'unica alternativa possibile.

Il suo mondo è popolato di personaggi difficili da dimenticare, a cominciare dal figlio Paul, protagonista di una vita piena e affascinante vissuta in sedia a rotelle, prendendo parte alla Resistenza e scoprendo un vero e proprio talento per la comunicazione: il ragazzo che fatica a parlare diventa uno degli uomini più in gamba e richiesti del marketing pubblicitario, in una sorta di paradosso positivo che spesso ritroviamo nei lavori di Lemaitre.

Molto interessante anche la scelta dell'autore di affrontare il tema della vendetta, oltre che quello della lotta e della rinascita: non solo la volontà di tornare in cima, quindi, ma anche quella di farla pagare a chi ha provocato la caduta (o ha semplicemente assistito senza intervenire).

Pierre Lemaitre si conferma capace di costruire una trama ricca, e di condurre il lettore attraverso 500 pagine dense, senza provocare in lui la minima stanchezza. Non è da tutti.
L'invito a scoprire il suo ultimo lavoro è da estendere anche a chi, ancora, non avesse avuto la fortuna di apprezzare i suoi romanzi: impossibile, a lettura ultimata, non voler correre in libreria a cercare una copia di Ci rivediamo lassù.

I colori dell'incendio di Pierre Lemaitre (Mondadori) è in libreria.

martedì 4 settembre 2018

"Il grande inverno", e un grande ritorno per Kristin Hannah

Ci sono ritorni attesi, e poi ci sono quelli per i quali il termine "attesa" non sembra sufficiente.
Quello di Kristin Hannah è uno di questi: dopo il successo mondiale di pubblico e critica ottenuto da "L'usignolo", le aspettative per il suo lavoro successivo erano altissime.
E non sono state disattese.

Quando Ernt Allbright torna dalla guerra del Vietnam è un uomo profondamente instabile. Dopo aver perso l'ennesimo posto di lavoro, prende una decisione impulsiva: trasferirsi con tutta la famiglia nella selvaggia Alaska, l'ultima frontiera americana, e cominciare una nuova vita. Sua figlia Leni, tredici anni e protagonista de Il grande inverno (Mondadori), è nel pieno del tumulto adolescenziale: soffre per i continui litigi dei genitori e spera che questo cambiamento porti a tutti un futuro migliore.
Non è entusiasta di lasciare ancora una volta la scuola, perdere altri amici e dover ricominciare da capo, ma è qualcosa a cui ha dovuto abituarsi.
Lo stesso vale per la madre Cora, pronta a fare qualsiasi cosa per l'uomo che ama, anche se questo vuol dire seguirlo in un'avventura sconosciuta. All'inizio l'Alaska sembra la risposta ai problemi di sempre: in un paesino isolato, gli Allbright si uniscono a una comunità di uomini e donne estremamente temprati, fieri di essere autosufficienti in un territorio così ostile e pronti ad aiutarli in ogni modo. Però quando l'inverno avanza e il buio invade ogni cosa, il fragile stato mentale di Ernt peggiora e il delicato equilibrio della famiglia comincia a vacillare. Ora, i tanto temuti pericoli esterni - il ghiaccio, la mancanza di provviste, gli orsi - sembrano nulla in confronto alle minacce che provengono dall'interno del loro nucleo famigliare.

Come si raccontano l'angoscia crescente di una madre disperata e di una moglie rassegnata, o la paura di una figlia che stenta a riconoscere nell'uomo spaventoso che si aggira per casa come una bestia fuori controllo il suo papà? Esattamente così.
Il grande inverno, quello dell'Alaska e delle sue anche diciotto ore di buio al giorno, è protagonista silenzioso e sfondo perfetto per quello che è il culmine della follia distruttiva di un uomo e la lotte di una donna per salvare sua figlia.
La stessa follia che lo rende entusiasta all'inverosimile all'inizio della loro avventura, impegnato in lavori di falegnameria, mentre solo moglie e figlia sembrano rendersi conto davvero della vita a cui stanno andando incontro. Ernt sembra non vedere la sporcizia e non sentire il freddo, sembra pensare solo a quanto quella nuova vita potrebbe cancellare quella precedente.

Scegliere Leni come personaggio centrale permette all'autrice, anche con una narrazione in terza persona, di guidare il lettore lungo il crescendo di follia di Ernt attraverso lo sguardo più ingenuo, fresco e spaventato che ci sia: quello di una figlia.
Persino la neve, che per i bambini è simbolo di gioia e giochi scatenati, per Leni diventa un motivo di paura: la neve, questa neve, copre ogni cosa, è inarrestabile e fredda, molto più fredda di quanto avrebbe mai immaginato. La neve li isola, rendendo la fuga impossibile e quella piccola catapecchia ancora più claustrofobica. Il costante contrasto tra la vastità del territorio circostante e la claustrofobia asfissiante dell'abitazione degli Allbright è uno degli elementi più riusciti del romanzo.

Il grande inverno è un romanzo perfetto, in cui, come in Alaska in inverno, bellezza e pericolo si intrecciano e si fondono fino a diventare una cosa sola.
Una lettura che non delude, e non solo: conquista, coinvolge, appassiona.
Da non perdere.

Il grande inverno di Kristin Hanna (Mondadori) è in libreria.

lunedì 3 settembre 2018

Un tè tra le stelle: un tuffo nello spazio, sulle note delle canzoni di David Bowie

Non è difficile vedere come Un té tra le stelle (Sperling & Kupfer) e la scrittura di David M. Barnett affondino le loro radici nella musica di David Bowie.
Non solo perchè sembra di vederne la trama dipanarsi attraverso le note di Space Oddity, Life on Mars, Starman e Ziggy Stardust, ma perchè è proprio nel giorno della morte di David Bowie che ha luogo una delle vicende chiave di quella che diventerà la storia di Tom, Gladys, James ed Ellie.
La storia di come un uomo sulla quarantina stanco dell’umanità e, forse, sul punto di iniziare a perdere anche la propria, si troverà a viaggiare da solo verso Marte, e grazie a un’interferenza nella comunicazione spazio-Terra inizierà a parlare con una famiglia fuori dall’ordinario, che gli cambierà la vita rendendolo la versione migliore di se stesso.

Una famiglia composta da una nonna e due nipoti, in cui tutto funziona alla rovescia: i due ragazzi, infatti, cercano in ogni modo di nascondere al mondo esterno la malattia della nonna, non volendo perdere l’unica famiglia rimasta loro, ed in questa dinamica famigliare a Tom spetterà un singolare ruolo di consigliere/angelo custode. Proprio lui, che pur di allontanarsi da tutto e da tutti ha preferito partire per un altro pianeta.
Non mancano le emozioni, in quella che resta una storia ricca di momenti di ilarità e di ironia, perchè David M. Barnett riesce a raccontare anche una malattia degenerativa con leggerezza senza perdere sensibilità, e perchè quello di Gladys è il personaggio più riuscito del romanzo.
Malattia o meno, l’anziana signora è spiritosa, diretta e impossibile da non amare.

Un tè tra le stelle è anche la lettura perfetta per ogni appassionato di cultura pop, che avrà di che divertirsi nello scovare ogni riferimento e citazione distribuita dall’autore lungo le sue 348 pagine: non solo David Bowie, quindi, ma anche Star Wars, The Grateful Dead, Anna Karenina, Taxi Driver, Clit Eastwood, Bear Grills, Nirvana, Iggy Pop e sì, persino Bob l’aggiustatutto.

David M. Barnett è riuscito nel difficile intento di raccontare l’amore, la perdita, la speranza e la determinazione senza far mancare al lettore emozione e divertimento.
Se c’è un messaggio da portare con sè a lettura ultimata, è l’importanza di apprezzare ogni giorno ciò che si ha, e non smettere mai di provare a essere una persona migliore.


Un tè tra le stelle di David M. Barnett (Sperling & Kupfer) sarà in libreria dal 4 Settembre.