Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Dalla mia scrivania tutta bianca, ogni volta che alzo lo sguardo mi trovo a fissare una cornice al cui centro è leggibile la frase "time to get stuff done".
Da un lato inspirational quote, dall'altro tentativo di autocostringermi a essere produttiva invece di guardare per aria, è anche una frase che, spesso, mi viene in mente pensando a chi, lungo il percorso, ha fallito.
Il fallimento è forse ciò che temiamo di più, quando affrontiamo una nuova sfida: abbiamo paura di sbagliare, di inciampare, di non riuscire ad arrivare in vetta. Eppure, la verità è che i momenti in cui impariamo di più sono quelli in cui sbagliamo.
Impariamo a tenere la temperatura del forno più bassa dopo aver bruciato un plumcake, a tracciare una perfetta linea di eyeliner nero dopo esserci ripetutamente dipinti l'intera palpebra mobile, a padroneggiare una lingua straniera dopo tanti, tantissimi strafalcioni e forse anche qualche gaffe imbarazzante.
Spesso scopriamo le nostre attitudini nascoste dopo aver trovato lavoro in quello che credevamo essere il nostro settore ideale, e aver realizzato di non essere proprio adatti o, soprattutto, felici,
Una meravigliosa riflessione su fallimento è quella proposta da Andrea Dusi nel suo "Come far fallire una startup ed essere felici" (Bompiani, 14€).
Cento pagine che si leggono tutte d'un fiato, decine di storie di insuccesso che però, nella maggior parte dei casi, hanno poi portato i loro protagonisti a riscattarsi con risultati straordinari.
"Errare è umano", quindi, ma non solo: è necessario. È necessario per testare i propri limiti, la propria preparazione, la propria forza d'animo. A volta è necessario anche solo per capire che forse, in quel progetto, non ci si era messo il cuore.
Se il mito delle startup si riassume in «un garage, una buona dose di genio e altrettanta di fortuna, un'idea rivoluzionaria destinata a cambiare il mondo. E poi soldi, successo, felicità», la realtà è che nove startup su dieci non sopravvivono ai primi tre anni di attività.
La domanda è: è drammatico? Assolutamente no.
In un paese come l'Italia, in cui manca una cultura del fallimento (laddove invece, negli Stati Uniti, esistono addirittura seminari universitari sull'argomento, ndr), quella di Andrea Dusi è una riflessione fresca, sincera, disinibita sull'importanza di sbagliare rotta, e di riconoscere che «il fallimento non è la fine di tutto, è una lezione per ripartire», e che «non ci sono colpe, ma errori da non ripetere».
Non sono una startupper, ma non ho potuto fare a meno di pensare ai miei, di fallimenti.
Alle relazioni chiuse male, ai risultati che non ho raggiunto, alle cose che - nonostante l'impegno - non sono riuscita a fare: ebbene, se oggi faccio un lavoro che mi stimola, mi diverte, e mi permette di incontrare persone straordinarie, viaggiare, mettermi alla prova lo devo anche a tutto ciò che ho sbagliato prima. Lo devo forse più agli errori, che non ai successi, perchè sono stati gli errori a farmi capire cosa non volevo fare e chi non volevo essere.
Forse voleva scrivere un saggio sulle startup, ma Andrea Dusi ha fatto molto di più.
Ci ha ricordato che la fallibilità è componente intrinseca della natura umana, e che va abbracciata, non combattuta. E che solo così si può, alla fine, essere felici (e di successo. Non dimentichiamo il successo).
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
giovedì 12 aprile 2018
Il fallimento non è la fine di tutto, è una lezione per ripartire. Andrea Dusi, le startup e le seconde opportunità
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