lunedì 30 aprile 2018

"Volevamo andare lontano": intervista a Daniel Speck

Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Oggi arriva in libreria un romanzo molto speciale, "Volevamo andare lontano" di Daniel Speck, edito Sperling & Kupfer (rilegato a 19,90€), del quale non vedevo l'ora di potervi parlare:
Milano, 2014. Julia, giovane e brillante stilista tedesca, sta per affrontare la sfilata che potrebbe finalmente coronare i suoi sogni. Ma, proprio mentre guarda al futuro, il passato torna a cercarla nei panni di uno sconosciuto che sostiene di essere suo nonno. Dice di essere il padre di quel padre che lei ha sempre creduto morto, e le mostra la foto di una ragazza che potrebbe essere Julia stessa, tanto le somiglia, se solo quel ritratto non fosse stato scattato sessant'anni prima.
Milano, 1954. Vincent, promettente ingegnere tedesco, arriva da Monaco con il compito di testare una piccola automobile italiana che potrebbe risollevare le sorti della BMW. È così che conosce Giulietta, incaricata di fargli da interprete, e se ne innamora. Lei è una ragazza piena di vita e di sogni - ama disegnare e cucire vestiti - ma è frenata dalla sua famiglia, emigrata dalla Sicilia, e da una promessa che già la lega a un altro uomo. Si ritroverà a scegliere tra amore e dovere, libertà e tradizione, e quella scelta segnerà il destino di tutte le generazioni a venire…
Fino a Julia. Proprio a lei, oggi, viene chiesto da quel perfetto estraneo di ricucire uno strappo doloroso, di ricomporre una famiglia che non ha mai conosciuto. Ma che ha sempre desiderato avere. Se accetta, l'attende un viaggio alla ricerca della verità, un tuffo nel passato alla scoperta delle sue radici. L'attendono bugie e segreti che potrebbero ferirla: il prezzo da pagare per riavere un mondo di affetti che le è sempre mancato. L'attende la scoperta emozionante di un amore incancellabile a cui va resa giustizia e di una donna luminosa che, all'insaputa di Julia, vive da sempre dentro di lei e dentro i suoi sogni.

Ho avuto la possibilità di incontrare l'autore a tu per tu, e di partecipare poi all'incontro con i blogger, e di scoprire qualcosa in più su uno dei romanzi più belli e interessanti usciti quest'anno.
Ecco cosa ci siamo raccontati da Open, davanti a un succo di frutta!

"Volevamo andare lontano" racconta cinquant'anni di vita, e cinquant'anni di storia.
Cinquant'anni di grandi cambiamenti dal punto di vista politico, sociale, tecnologico, persino climatico. Come hai costruito il tuo romanzo, e soprattutto come hai organizzato il tuo lavoro di ricerca e ricostruzione storica, in modo che quest'ultima si fondesse alla perfezione con la finzione narrativa?
Sono partito dalla volontà di raccontare un capitolo importante della storia di Italia e Germania, e il mio punto d'inizio lo posso collocare in quelli che sono due eventi in particolare: il primo contratto tra governo italiano e governo tedesco, siglato nel 1955, che regolasse il flusso di italiani verso la Germania e il loro impiego nelle industrie in espansione.
Nello stesso anno venne lanciata una macchina, l'Isetta citata nel romanzo e che salvò la BMW.
Potremmo definirla la Smart degli anni Cinquanta, ed era frutto di un progetto italiano poi realizzato in Germania.
Ho poi realizzato che il contratto firmato nel 1955 giunse al termine nel 1973, lo stesso anno in cui ebbe inizio la crisi del petrolio: avevo quindi, nel giro di vent'anni, un arco di tempo in cui si partiva da un clima energico, pieno di speranze per il futuro, e si arrivava a una fase di delusione per la non realizzazione degli ideali del Sessantotto.
E poi ci sono le partite di calcio, che ebbero un significato importante.
Tutto ciò che riguarda la storia della famiglia è invece pura finzione.
Non c'è nulla quindi di tuo, della tua famiglia o di storie che ti sono state raccontate?
In tutti i personaggi c'è qualcosa di me, della mia famiglia e di storie vere che mi sono state raccontate: prima di scrivere il mio libro ho fatto una lunga serie di interviste a persone che hanno realmente vissuto il periodo che ho scelto di raccontare.
Ascolto molte storie, quando scrivo.
Quando studiavo cinema ho conosciuto la grande Suso Cecchi D'Amico (sceneggiatrice anche di "Ladri di biciclette", ndr), e ricordo che da uno studente le era stato chiesto come facesse, essendo di famiglia nobile, a raccontare così bene la povertà della epriferia romana. Lei ha risposto che "camminava ed ascoltava", ed è qualcosa che ho portato dentro e messo in pratica quando ho iniziato a scrivere. Ne ho ascoltate tantissime, di storie, e questo si riflette anche sulla struttura del romanzo, in cui abbiamo una persona che, di fatto, ascolta le storie della sua famiglia ricostruendo questo puzzle che si è perduto nel tempo.

Una frase del tuo romanzo mi ha particolarmente colpita, ed è quella in cui sintetizzi alla perfezione la condizione degli italiani che lasciano la loro terra natale per la Germania: «ognuno portava la sua valigia in mano, i suoi sogni in testa, la paura nel suo cuore e una medaglia in tasca». È fin troppo facile rivedere in questa immagine chi oggi arriva sulle nostre spiagge, in fuga dalla guerra.
Si è creata una discussione sul tema dell'immigrazione, e soprattutto, era uno dei tuoi intenti?
La discussione si è creata, soprattutto perchè il romanzo è uscito nel 2016, anno in cui la Germania ha accolto più di un milione di immigrati siriani - definendoli rifugiati, come a suo tempo definì "lavoratori ospiti" gli italiani, perchè la Germania da sempre non vuole essere un paese d'immigrazione.
Come gli italiani, allora, arrivavano al binario 11 della stazione di Monaco e qui venivano visitati e registrati (una sorta di Ellis Island tedesca), così nel 2016 arrivarono i rifugiati siriani.
Andai alla stazione con la sensazione che la storia si stesse ripetendo, e trovai esattamente questo.
Ora la storia è diversa: da immigrati, gli italiani sono diventati il paese che accoglie, e con il mio libro ho provato a mostrare ai lettori il mondo con gli occhi degli immigrati, spiegando cosa significhi lasciare la propria patria con una valigia rotta e un figlio in braccio, e cosa significhi costruirsi una nuova vita in un paese differente.
Se da un lato c'è la voglia di costruire qualcosa di nuovo, e di spezzare magari qualche tradizione, dall'altro c'è un senso di rottura e di allontanamento dalle tue radici, che inevitabilmente ti lascia un vuoto nel cuore.
Si respira un senso di perdita, infatti. Sembra che meno sono stranieri in Germania, meno sentono il legame con la loro terra natale.
Esatto, ed è qualcosa che tutti gli intervistati mi hanno raccontato: hanno vissuto un momento in cui in Germania non erano ancora del tutto accettati, e al loro ritorno in Italia per trovare la famiglia si sentivano definire "i tedeschi". Erano cittadini senza una patria, e quello dell'appartenenza è sicuramente uno dei grandi temi del romanzo: ognuno dei miei protagonisti vuole appartenere a qualcosa, sia esso una famiglia, un paese, una società, un amore. Ed è questo che in fondo cerchiamo tutti.
In Juliet questa ricerca di un qualcosa a cui appartenere è palese sin dall'inizio, ancora prima che ci apra il suo cuore e ci mostri il suo desiderio di ricostruire la storia della sua famiglia. La donna, infatti, brama di appartenere al mondo glamour e scintillante dell'alta moda, e la incontriamo mentre prepara quella che potrebbe essere la sua sfilata "di svolta".
Per poi accorgersi che questo mondo che l'affascinava tanto in realtà non le offre un senso di appartenenza emotiva e profonda di cui ha bisogno, e che è un mondo sì scintllante, ma anche falso.
E da qui il suo voler tornare al lato concreto della moda, all'atto del cucire e del ricamare.
Esatto. Il lato meno elegante ma più vero. Tutta la sua storia è quella di una donna che cerca la verità, sia per quanto riguarda la sua famiglia, sia per quanto riguarda se stessa.
Ringrazio moltissimo Sperling & Kupfer e Daniel Speck per la disponibilità, e vi consiglio la lettura di "Volevamo andare lontano": vi ruberà il cuore, così come lo ha rubato a me.

Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3

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