lunedì 22 ottobre 2018

Intervista a Valerio Varesi su "La paura nell'anima", il commissario Soneri e le infinite sfumature della paura

La paura nell'anima è sugli scaffali da una settimana, e il suo protagonista è uno dei più riusciti di Valerio Varesi: l'ultima indagine del commissario Soneri (Frassinelli) prende spunto da un reale fatto di cronaca, ed è proprio da qui che iniziamo la nostra chiacchierata con l'autore da Open, a Milano.

Ritroviamo il commissario Soneri e lo seguiamo mentre porta avanti una nuova indagine, ma stavolta lo spunto arriva dalla cronaca.
Mi colpiscono i fatti di cronaca che hanno al loro interno la possibilità di essere sviluppati e raccontare l'oggi, che è poi lo scopo che io perseguo col giallo. Per me è importante, ed è una legge inderogabile del giallo, arrivare a identificare l'assassino, ma quello che m'importa di più è capire perché è successo, quindi attraverso un'indagine riuscire a capire l'attualità. Quello che leggiamo sui giornali e non riusciamo a sviluppare del tutto perché siamo tenuti all'onere della prova.

Igor ci racconta la paura, una paura che non è riconducibile ad una cosa precisa, ma proprio perché invisibile fa ancora più paura: una presenza che aleggia, ma non c'è.
Rappresenta più in generale le nostre paure di quest'epoca, con uno sguardo alla politica e a chi usa la paura per avere consenso.

Indagine dopo indagine, il personaggio del commissario Soneri si sviluppa sempre di più, cresce nella sua caratterizzazione.
Ho scelto un personaggio che si racconta, che invecchia, che ha dei problemi, che in qualche modo attraversa la vita e quindi muta nel tempo. Mi piaceva che ogni episodio rivelasse qualcosa di lui, non solo per una ragione di interesse del lettore. Anzi, può capitare che il lettore preferisca un personaggio immutabile, come Maigret. Mi piaceva l'idea che Soneri si raccontasse, perchè tutti noi cambiamo: andiamo a letto la sera e ci svegliamo al mattino dopo un po' differenti, come se morissimo e rinascessimo. Questo lo rende più umano e più vicino a noi.
Pensando agli anni di scrittura, quanto c'è di Valerio Varesi nel commissario Soneri?
Tanto, anche se la sua vita non è proprio sovrapponibile alla mia.
Dal punto di vista della visione della realtà coincidiamo.
Guardo la realtà attraverso Soneri perché credo nella letteratura impegnata, nella quale l'autore deve rivelare ciò che pensa. Quando leggo un libro pretendo personaggi credibili e che rimangano vivi nella mente e una trama possibilimente significativa, ma soprattutotto mi piace trovare un autore che mi dica quello che pensa e mi restituisca una visione del mondo. Magari posso anche non essere d'accordo, ma esigo che lui lo faccia. La letteratura è un distillato di vita: dobbiamo raccontare quello che vediamo. Poi è evidente come le vicende sentimentali di Soneri o certi suoi gusti non siano i miei. In fondo, anche il personaggio televisivo era molto diverso: Luca Barbareschi è un bellone rispetto a Soneri, così come Angela non è una superdonna come la Stefanenko.

Leggendo il romanzo, la mia percezione è che non faccia paura tanto il serial killer, che in fondo è l'elemento concreto di cui tutti dobbiamo avere paura, quanto il fatto che la sua presenza vada a interferire nella vita di tutti i giorni: le abitudini stesse diventano pericolose, mentre non c'è nulla di più rassicurante della routine. Mi sembra che tu abbia lavorato tantissimo sulla paura delle piccole cose e mi è  piaciuta l'introduzione del tema dei social network, di solito visti come parte ludica della nostra vita e qui usati invece come presa in giro malefica, andando ad alimentare la paura.
Cosa pensi di questa influenza dei social e quanto è facile farli diventare strumento di paura?
Nella realtà, in qualche caso i social network sono stati alleati degli inquirenti rivelando, ad esempio nascondigli dei mafiosi. Qui servono a Igor, che sa come sfruttarli, per beffare il prossimo, per dire «sono qui, ma non riuscite a prendermi, ci sono e non ci sono».
L'uso dei social network rende ancora più impalpabile la minaccia che Igor rappresenta: spaventa sia perché ha ucciso delle persone, sia perché scatena le paure latenti che tutti portano dentro.
Nella realtà, lo stravolgimento delle abitudini per paura è esattamente ciò che è accaduto in quella parte della pianura padana tra Bologna e Ferrara: la vita è effettivamente cambiata. La gente ha smesso di uscire la sera e messo le inferriate alle finestre, i fari potenti, i cani doberman nei giardini. Si è messa a guardare con sospetto i vicini se compravano più cibo pensando che nascondessero qualcuno in casa. Igor nel romanzo corrode la vita sociale e i rapporti tra le persone, facendo da detonatore a paure esistenziali.
Il nostro è un mondo senza punti di riferimento, senza speranza nel futuro, con la paura di vivere. Non c'è un percorso collettivo, non c'è un collettore di idee e ci sentiamo sempre più isolati.
Tutto questo si innesta nella paura prodotta da Igor come un mozzicone che incendia un bosco.

A me è piaciuta molto l'ambientazione nel piccolo paese, in una piccola comunità montana chiusa in cui la presenza di Igor scatena vecchi rancori. Mi ha fatto pensare alla storia di Cogne, in cui si accusavano tra vicini di casa della morte del bambino. La comunità chiusa moltiplica le paure della gente rispetto alla grande città?
No, io credo sia più o meno la stessa cosa: anche in città tu vivi l'angoscia del vicino, dell'abitare magari in un grande palazzo di cui non conosci tutti i condimini.
Ho inventato il paese del romanzo per non condannare un luogo preciso, ma è vero che in un luogo chiuso le voci corrono più velocemente e alimentano le suggestioni collettive, molto più che in una città. L'elemento montano conta, perché nei miei romanzi voglio che l'ambiente sia uno dei protagonisti: questo mondo montano riscopre un'arcaicità che, forse, giudichiamo paradossale al tempo della razionalità tecnologica, ma che ritorna proprio in virtù del fallimento della razionalità e del controllo. Questa arcaicità si esprime attraverso le figure mitiche di cui si parla nel romanzo, a cui gli abitanti di quei luoghi attribuivano in passato tutti i fatti inspiegabili. La natura stessa a un certo punto diventa un elemento pauroso, perché ti fa sentire piccolo di fronte alla grandezza delle montagne.

Nella vicenda a un certo punto prevale la vergogna di ciò che accade, rispetto al dolore per il fatto stesso. È così anche nella vita?
Sì, molto spesso è così. Viviamo nell'epoca dell'immagine e la vergogna corrompe la tua immagine, ti distrugge dal punto di vista sociale. L'elemento della meschinità si trova anche in altre epoche. Pensate a Céline nel suo Viaggio al termine della notte, che da medico entra nelle case della piccola borghesia dei sobborghi parigini, dove trova famiglie disposte a lasciar morire dissanguata una ragazza dopo un aborto clandestino pur di non portarla in ospedale e denunciare così quanto accaduto. La vergogna prevale a discapito della vita, e in questo forse la comunità ristretta si rivela diversa dalla grande città.

Hai passato tanto tempo in compagnia di Soneri: gli hai dato tanto, ma sicuramente lui ha anche dato tanto a te. Dopo tante indagini diverse, pensi che esista un tipo di caso che potrebbe metterlo veramente in difficoltà?
Se volessimo veramente raccontare fino in fondo la realtà che ci circonda, a un certo punto dovremmo raccontare di un investigatore che fallisce, perché la metà dei delitti in Italia non viene risolta. È abbastanza strano che tutti i gialli finiscano con la cattura del colpevole.
Bisognerebbe costruire un giallo dove alla fine l'assassino svanisce, come ne "La Promessa" di Dürrematt, anche se si trattava di un investigatore sui generis.
Quest'idea mi stuzzica da molto tempo, ma probabilmente andrei in contrasto con tutto lo schema narrativo classico del giallo, e i lettori resterebbero sconcertati.
Del resto la società cambia in fretta, e con lei cambiano le città: nel romanzo precedente (Il commissario Soneri e la legge del Corano, ndr) racconto una parte di Parma in cui Soneri non si riconosce più. Spesso non riusciamo a stare al passo con i cambiamenti dei luoghi. Forse questo potrebbe mettere in crisi Soneri, più ancora dello sviluppo tecnologico che lui segue a fatica.
Oppure, come suggerivo all'inizio, trovare un assassino che gli sfugge, come capita a volte con certe indagini giornalistiche ma anche giudiziarie. Ho conosciuto molti commissari di polizia che nonostante conoscessero i colpevoli di certi delitti non avevano prove sufficienti a incastrarli.
La narrativa, e il romanziere, non ha l'onere della prova e può raccontare come sono andate le cose.

Parlando di lettori, come sono oggi?
Disorientati dalla grande produzione libraria. Io stesso quando entro in una libreria e vedo un bancone sterminato, non so cosa scegliere a meno di non averne già un'idea precisa.
Non c'è più una società letteraria che faccia da filtro, che indirizza un po' il lettore.
Puoi avere fiducia in un marchio editoriale, forse, ma anche questo non è semrpe una garanzia.
Alcuni editori fanno ancora il loro mestiere, altri inseguono solo il business.
Molti lettori finiscono per comprare i libri imposti dalla pubblicità, con risultati pericolosi: se uno compra il vincitore del Premio Strega che quell'anno è scadente, tende a pensare che gli altri concorrenti siano anche peggio e a non dare loro una possibilità.
E il commissario Soneri, col suo carattere introspettivo, cosa leggerebbe?
Di sicuro i classici. Non certo i gialli, che per uno del mestiere potrebbero risultare insopportabili.
I commissari spesso pensano di essere gli unici depositari dell'argomento: ce ne sono molti che scrivono romanzi, ma spesso dimenticano che seguire alla lettera la realtà delle procedure può rendere un romanzo noiosissimo.

Non hai mai l'impressione che quello che voi scrittori mettete nei libri sia del tutto inutile?
Tu già nel 2016 nel tuo Il commissario Soneri e la legge del Corano mettevi in guardia contro l'immigrazione incontrollata e il rischio della fine di certi equilibri che sono effettivamente saltati. Tanti romanzi oltre ai tuoi hanno anticipato la realtà (pensiamo a Gomorra, tra i più celebri) ma la mia impressione è che anche chi legge queste cose nei librimalla fine le rimuova.
Credo che chi fa lo scrittore abbia anche un'antenna in più, che gli permette di anticipare qualcosa. Pensate a Pasolini, che in tempi remoti aveva anticipato come saremmo finiti molto più tardi.
Ma se io, scrittore, penso e prevedo tutto ciò, perché la classe politica non lo fa, e se glielo dici non ascolta? È chiaro che la diffusione limitata dei libri nel nostro paese non ha la forza di cambiare le opinioni, ma questo dimostra anche che non c'è più una connessione tra mondo intellettuale e mondo politico. Oppure dimostra che la classe politica fa finta che questi problemi non esistano e prosegue ciecamente presentando sempre le stesse ricette.
Preoccuparsi dell'immigrazione non significa essere xenofobi, e ignorare certi segnali è sconsiderato. La sinistra italiana continua a essere troppo massimalista su questo punto.
Il problema del resto è ormai di tutti, anche di paesi come Francia e Germania che erano decisamente più attrezzati di noi per affrontarlo. Quando saltano le regole di convivenza e scoppia la guerra del "tutti contro tutti", come diceva Hobbes, è inevitabile che alla fine la gente cerchi qualcuno che prenda il potere e faccia la legge, e la destra è maestra in questo. Uno stato con leggi rigide e severe appare rassicurante, ed è sempre stato così, ma noi non abbiamo la memoria storica.


La paura nell'anima di Valerio Varesi (Frassinelli) è in libreria, al prezzo di copertina di 18,50€.

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