Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Oggi parliamo di "Magari domani resto" di Lorenzo Marone, edito Feltrinelli (brossurato a 16,50€), e lo facciamo proprio insieme all'autore:
Luce, una trentenne napoletana, vive nei Quartieri Spagnoli ed è una giovane onesta, combattiva, abituata a prendere a schiaffi la vita. Fa l'avvocato, sempre in jeans, anfibi e capelli corti alla maschiaccio. Il padre ha abbandonato lei, la madre e un fratello, che poi ha deciso a sua volta di andarsene di casa e vivere al Nord. Così Luce è rimasta bloccata nella sua realtà abitata da una madre bigotta e infelice, da un amore per un bastardo Peter Pan e da un capo viscido e ambiguo, un avvocato cascamorto con il pelo sullo stomaco. Come conforto, le passeggiate sul lungomare con Alleria, il suo cane superiore, unico vero confidente, e le chiacchiere con il suo anziano vicino don Vittorio, un musicista filosofo in sedia a rotelle. Un giorno a Luce viene assegnata una causa per l'affidamento di un minore, e qualcosa inizia a cambiare. All'improvviso, nella sua vita entrano un bambino saggio e molto speciale, un artista di strada giramondo e una rondine che non ha nessuna intenzione di migrare. La causa di affidamento nasconde molte ombre, ma forse è l'occasione per sciogliere nodi del passato e mettere un po' d'ordine nella capatosta di Luce. Risolvendo un dubbio: andarsene, come hanno fatto il padre, il fratello e chiunque abbia seguito il vento che gli diceva di fuggire, o magari restare?
Abbiamo avuto l'incredibile opportunità, grazie a Feltrinelli, non solo di leggere il romanzo in anteprima ma anche di chiacchierare con l'autore davanti a un aperitivo, e tra un drink e una bruschetta abbiamo percorso insieme a lui le strade della "sua" Napoli e di quella di Luce.
Partiamo subito da una domanda scomoda: perché Luce, la protagonista, all'inizio del romanzo, afferma che le donne stanno meglio in Italia che in altri paesi?
È un po' una provocazione, ma Luce è una donna forte, popolare, che non so se esista anche altrove, ma che diventa così crescendo nel contesto di Napoli, e difficilmente si fa mettere i piedi in testa.
Com'è stato, da scrittore, calarsi nei panni di un personaggio femminile?
Questa è una cosa di cui mi sono reso veramente conto solo alla fine, nel senso che mentre scrivevo non ho avuto difficoltà (del resto la domanda che mi aveva perseguitato dopo l'uscita del mio primo libro è stata «come hai fatto a vestire i panni di un ottantenne?»).
La sensibilità dovrebbe comunque permetterti di metterti al posto degli altri, e io in questo senso non ho avvertito il problema. Luce è una voce che sentivo, un personaggio che avevo dentro: non è reale, ma avevo ben presente tipi del genere. Solo quando ho finito mi sono chiesto se avessi inquadrato davvero una voce femminile, ma questo me lo dovranno dire i lettori.
Con questo personaggio hai infatti detto di esserti voluto distaccare dal protagonista abbastanza autobiografico del libro precedente.
Dato che in ogni uomo c'è una parte di femminilità, quanto c'è di te in Luce?
Premetto che io credo di avere una parte femminile molto spiccata, soprattutto una sensibilità quasi feminile, forse una conseguenza dell'essere cresciuto anch'io fra donne. Credo però che Luce sia molto diversa da come sarei potuto essere io da donna. Io non ho lo slancio, il coraggio verso la vita e l'irruenza di Luce: abbiamo in comune solo l'avvocatura, perchè anch'io ho fatto l'avvocato per dieci anni. Vivo al Vomero, quartiere borghese collinare molto diverso dai quartieri spagnoli, ma Napoli ha la particolarità di non avere confini: nello stesso quartiere convivono diverse stratificazioni sociali, e capita che la famiglia nobile di origini antiche viva vicino al camorrista.
Pensando alle sfide affrontate da Luce, e alle decisioni che deve prendere, è impossibile non pensare alle difficoltà che tutti quelli della sua età si trovano ad affrontare oggi. Quant'è difficile oggi non avere paura?
Luce è un po' la mia proiezione, quello che vorrei essere. Essere persone sensibili ti permette di vivere la vita appieno, anche se paghi un dazio in tema di malessere e malinconia.
Un grande atto di coraggio che si può fare oggi è non tanto non avere paura, cosa disumana, ma tentare di affrontarla, e resistere col sorriso sulle labbra, con leggerezza e ironia, che ti permettono di attutire in qualche modo le botte della vita.
Credo che si debba migliorare il nostro piccolo pezzettino di mondo: se lo facessimo tutti quanti, vivremmo tutti meglio. E nel momento in cui ti prendi cura delle tue radici, ti prendi cura anche della tua città.
Napoli ispira tante storie per le tante persone diverse che ci vivono.
C'è un particolare caratteristico che ha dato origine a questa storia, oppure è nata lentamente dentro di te?
No, avevo solo l'idea di voler parlare di una Napoli popolare, perché avevo letto un paio di romanzi ambientati nei quartieri spagnoli che mi erano piaciuti, e perché volevo servirmi della città. In quelle zone a livello descrittivo puoi fare quello che vuoi, mentre nei quartieri borghesi questo non accade.
È come perdersi nei mille dettagli di quando si guarda la tavola di un fumetto.
Quando inizio a scrivere una storia io parto sempre da un'idea molto vaga e il primo periodo, per un certo numero di pagine, è un girare un po' a vuoto senza punti di riferimento. A un certo punto della trama, poi, scatta la scintilla che mi fa entrare nel vivo della storia.
C'è anche chi, prima di iniziare, si prepara sinossi e schede dei personaggi, ma io non sono così.
È lo stesso processo che hai seguito lavorando ai libri precedenti?
Sì, sono sempre partito solo dalla voglia di parlare di un personaggio.
In questo romanzo si parla di Luce e di Napoli, ma anche di andare o restare. Quanto pensi che a un certo punto della propria vita sia necessario cambiare, magari per trovare nuove ispirazioni, e quanto al tempo stesso reputi importante ritornare?
Dipende da cosa s'intende per cambiare, perché cambiare è necessario nella vita.
Qui non si fa un elogio delle abitudini, ma della ricerca di sè. Non c'è bisogno di scappare: possiamo trovare la nostra strada sia restando, sia andando via. In realtà, non si parte e non si resta mai del tutto, perché quando te ne vai lasci sempre un pezzetto di te, e quando resti rimpiangi a volte di non essere partito.
I sentimenti d'amore verso la propria città si possono sviluppare di più solo lasciandola?
Purtroppo, spesso è così. Quando ti allontani ti rendi conto di tante cose. Per me, quando mi trovo al Nord, scatta l'empatia se incontro un napoletano e la cosa che altrove veramente mi manca è l'umanità della mia città. Sono convinto che sarei completamente diverso, e così la mia scrittura, se non fossi napoletano.
Ci sono tante parole del dialetto napoletano in questo libro, che spesso danno anche il titolo ai capitoli. Capita spesso che i dialetti rendano di più concetti che l'italiano non riesce a esprimere con una sola parola. Se tu dovessi scegliere una parola che per te è "casa, Napoli, quotidianità", quale sceglieresti?
È una bella domanda, ma di parole così ce ne sono tante. Questa volta ho usato di più il napoletano perché ero nel contesto giusto per farlo, e secondo me abbiamo tante belle parole che vogliono dire tutto, anche musicali e piene di sapori e di colori. Forse sono due quelle che mi rappresentano più di tutte: la prima è "arteteca", che equivale al ballo di San Vito: esprime l'inquietudine. Io sono uno così, vengo attratto dalle persone calme, che parlano lentamente, perché sono agitato. La seconda è "scuorno", quando proviamo vergogna. Io ho simpatia e rispetto per chi prova "scuorno" perché credo sia una caratteristica delle persone sensibili.
Che tipo di scelta ti ha guidato nell'alternanza tra lingua italiana e napoletana?
Hai scritto e riscritto oppure hai seguito il tuo istinto, alla ricerca di una musicalità che hai ottenuto molto bene?
Qualcuno mi ha detto che lo stile di questo romanzo è molto diverso dallo stile dei romanzi precedenti, e forse è vero. Io non me ne sono neanche reso conto, perché in realtà anche questo stile fa parte di me. Forse è la prima volta che uso così tanto il napoletano, e che ho parlato della Napoli popolare per servirmi del suo linguaggio. Questa voce era dentro di me.
Geronimo, ad esempio, incarna alla perfezione la classica arte di arrangiarsi napoletana. Giuro che non l'ho fatto così per parlare male degli avvocati, avrebbe potuto svolgere anche un altro mestiere, ma è una tipologia di persona che incontri quotidianamente per le strade di Napoli.
Questo personaggio di Luce non è all'antitesi dell'arte di arrangiarsi?
Luce è alla costante ricerca di moralità, intesa come rigore morale, anche grazie all'educazione ricevuta dalla madre. Vuole migliorare le cose del suo mondo. È molto poco meridionale, in fondo, anche se quel "magari domani resto" ricorda il "mo' vediamo" che è tipicamente napoletano.
Tra i protagonisti c'è un bambino, Kevin.
Il fatto di essere diventato da poco padre cosa ha cambiato nel tuo modo di scrivere?
Ho meno tempo, senz'altro. Mi ha cambiato il modo di vivere. Se hai un bambino finirai per amare tutti i bambini, così come da quando ho un cane amo tutti i cani.
L'amore, quando è vissuto, ti porta ad amare anche la vita in senso assoluto, ti fa diventare una persona migliore e ti fa anche scrivere meglio.
Molti personaggi esprimono concetti filosofici. A un certo punto si parla del diritto di stare indietro e di essere ascoltato e questa cosa mi è sembrata originale.
Ti è mai capitato, da scrittore o nella vita, di sentirti indietro e di avere qualcuno che abbia rispettato i tuoi ritmi?
Sentirmi indietro no, anche se a scuola non ero un grande studente e un po' indietro forse lo ero. Non sentirmi aspettato, sì. Da bambini ci insegnano molte cose ma non altre, come per esempio stare in piedi, nel senso di vivere le emozioni che la società non considera importanti, costruire una struttura che ci faccia camminare senza barcollare. Nessuno aspetta davvero che un bimbo possa trovare la sua strada.
Forse perché verso i bambini scatta la tentazione di proteggerli, di dire sempre loro che va tutto bene, anche se non è così?
Credo semplicemente che bisognerebbe cercare di ascoltare di più chi si ha di fronte, non solo con i bambini. Il percorso di ciascuno può variare molto rispetto al nostro.
Si dice che a Napoli siate tutti filosofi, e in parte lo ritroviamo anche in questo romanzo.
C'è una ragione per questa natura portata alla riflessione?
È una città che si presta a fornire uno spunto di riflessione continua. Per forza di cose il centro storico finisce sui giornali per la cronaca nera, ma nessuno sa che lo stesso centro storico ha una grande vitalità culturale, poco conosciuta. È il doversi confrontare con la difficoltà di viverci che ti porta a filosofeggiare: forse è più facile trovare ispirazione in un luogo così pieno di sapori, colori e odori.
Pensi che le nuove generazioni riusciranno a cambiare Napoli?
No. Ogni tanto si dice che Napoli è cambiata e poi si ritorna sulle stesse cose. Tranne un breve periodo di vent'anni fa, credo che la città sia sempre la stessa.
Grazie alla casa editrice per aver organizzato un aperitivo strepitoso, e all'autore per averci raccontato il suo libro, la sua Luce Di Notte e e la sua Napoli. Che io devo assolutamente riuscire a visitare prima o poi, ma questo è un altro discorso.
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
venerdì 17 febbraio 2017
Scopriamo "Magari domani resto" di Lorenzo Marone insieme all'autore!
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