David Grossman è tornato in libreria a novembre con il suo ultimo romanzo, La vita gioca con me (Mondadori). Una storia intergenerazionale, animata da un profondo conflitto al femminile che ha conquistato ancora una volta i lettori. Abbiamo incontrato David Grossman a Milano, ed ecco cosa ci ha raccontato sul romanzo, sulla scrittura e sul rapporto tra memoria e dolore.
Non possiamo non partire da una riflessione sulla lingua ebraica, e sull’importanza della sua tradizione millenaria: da autore, ne sente il peso scrivendo?
L’ebraico è una lingua antica, ha più di quattromila anni: questo significa che c’è una memoria che si tramanda da migliaia di anni. E non si tratta solo di memoria: c’è un’identità profonda, e profondamente radicata in coloro che parlano ebraico. C’è un’enorme differenza tra l’ebraico in cui è scritta la Bibbia e la lingua corrente: molti giovani, oggi, faticano a leggere la Bibbia, per esempio. Io faccio parte di una generazione che ha studiato a lungo la Bibbia, e persino per me ci sono passaggi difficili da comprendere.
C’è una grande stratificazione, che va dalla Bibbia al medioevo, passando per lIlluminismo e la contemporaneità (in cui subentra ad esempio anche lo slang, come in ogni altra lingua correntemente parlata), ma non la vedo come un peso, come un fardello: considero un privilegio poter scrivere in una lingua così stratificata, con così tanti echi dal passato.
Al centro del romanzo c’è appunto il tema della memoria, nelle sue diverse sfaccettature: da un lato una memoria dolorosa, che forse è lo stesso cervello a cercare di modificare e cancellare come meccanismo di autodifesa, dall’altro una memoria che vuole a ogni costo essere preservata, in modo in più possibile veritiero. Quello che ricordiamo modella sicuramente quello che diventiamo, e che siamo. Pensando alle tre protagoniste di questa storia, come potremo riassumere il modo in cui la memoria le modella e condiziona la loro vita?
È sicuramente al centro dell’intero romanzo, pensando alle tre generazioni di questa famiglia e a come ricordano il passato, e il modo in cui reagiscono e gestiscono il segreto doloroso dietro la decisione di Vera. È qualcosa che richiede molto impegno, trovare il modo giusto di ricordare: cosa ricordiamo e ciò a cui ci attacchiamo di più nel ricordo, ciò che forse dovremmo dimenticare per poter vivere in modo pieno e sereno le nostre vite.
Conosco persone e paesi che sono quasi prigionieri della loro stessa memoria, che rifiutano di lasciare andare, e ciò diventa un freno al muoversi liberamente in avanti, verso il futuro. Conosco persone che hanno sofferto molto, soprattutto durante l’infanzia, e hanno scelto di attaccarsi in modo quasi morboso all’umiliazione e al dolore subiti, ma così facendo hanno dedicato la vita intera al ricordo doloroso, incapaci di permettersi di vivere appieno il presente, di dirsi «forse posso lasciare andare questo dolore, forse posso distaccarmene».
La vita gioca con me è la storia di una ferita, una ferita mentale che condiziona questa famiglia da tre generazioni. Quando accade qualcosa di simile in una famiglia, una parte di essa ne resta quasi paralizzata, ma si può sempre scegliere di prendere la ferita, lasciarla nel passato (senza negarla), e iniziare a muoversi più liberamente attorno alla ferita. Tornando così a respirare a pieni polmoni, e a sentirsi più liberi.
Quanto è stato difficile prestare la voce a tre protagoniste così forti, animate da un forte conflitto intergenerazionale, e lasciare quasi sempre in secondo piano i protagonisti?
So scrivere da uomo, ma non da donna, e la mia intenzione era quella di scrivere questo romanzo da persona che sa di non poter scrivere “da donna”. Volevo essere in grado di comprendere un modo di essere e di pensare diverso dal mio, e nel romanzo se ne trovano tre, uno per ogni protagonista. Ovviamente non esiste un modo univoco di essere “donna”, e nei miei romanzi ho scritto più volte da un punto di vista femminile: non è un processo semplice, perché credo che di solito il nostro animo preferisca il conforto e la sicurezza di essere se stessa. L’animo preferisce continuare a muoversi a modo suo, senza interruzioni, e se provo a imporre al mio animo un’altra esistenza si ribella, non è facile. Anni fa, quando stavo scrivendo A un cerbiatto somiglia il mio amore (processo duranti diversi anni), ricordo di aver fatto fatica ad afferrare il carattere e la personalità di Orah, la protagonista. Ho deciso di sedermi e scriverle una lettera per chiederle come mai fosse così ostinata e resistente, come se fosse una persona reale, e appena ho finito ho compreso di aver affrontato il problema nel modo sbagliato: non era Orah a doversi arrendere a me, ero io a dovermi arrendere a lei. Dovevo abbandonare ogni mio meccanismo di difesa e permetterle di allagare la mia anima con la sua personalità: appena l’ho fatto, è stato come se iniziasse a scriversi da sé.
Sul conflitto intergenerazionale, è vero: in questa famiglia abbiamo ripetuti abbandoni dei figli da parte delle madri, e questo fa sì che il conflitto sia aspro. Quello a cui ero interessato era il movimento delle tre donne, che riescono ad avvicinarsi in modo quasi insopportabile l’una all’altra per poi distaccarsi violentemente, come in una danza che solo in una famiglia può manifestarsi con così tanta energia.
Se le tre donne protagoniste sono animate da emozioni violente, e spesso preda del dolore e dell’odio, Rafael sembra più stabile ed incline ad accoglierle di volta in volta, a essere il loro punto fermo.
Avevo bisogno di Rafael, che da un lato dipende totalmente dalle tre donne, e che dall’altro è ciò di cui tutte e tre hanno bisogno per sentirsi più stabili. Come se lui creasse un modo alternativo di “essere famiglia”: è come un figlio per Vera, anche se non lo è di sangue, così come sa essere un buon marito per Nina nonostante lei scappi da lui, e riesce a essere un buon padre per Ghili, dandole ciò che non le dà sua madre. La verità è che Rafael ha paura di molte cose, ed è emotivamente fragile: a priva vista potremmo considerarlo un fallito, pensando ai sogni non realizzati o a come vive la sua vita nell’età più avanzata. Eppure rappresenta il luogo in cui le tre donne possono riposare, e trovare conforto, nel mezzo della guerra emotiva che le sconvolge.
Trovo emblematico ciò che dice a Ghili al telefono, confessando che nella vita non ha saputo fare granché, ma una cosa sì: ha saputo e sa amare Nina, e tutta la sua vita è dedicata a questo. È un amore che rispecchia quello che Vera ha provato a sua volta.
Se scavare nel passato ci permette di comprende l’origine della nostra vita, e quindi anche chi siamo e la nostra identità, come possiamo invece avvicinarci al perdono? Sembra quasi che Nina inizi a perdonare Vera solo nel momento in cui inizia a dimenticare e quindi a lasciarsi alle spalle una parte della sua vita fatta di sofferenza dei dolore.
Perdonare: riusciamo a perdonare davvero chi ci ha ferito profondamente? Non ne sono sicuro. Non ho certo la capacità di perdonare di un santo Quello che so è che nei momenti della mia vita in cui ho sentito di essere troppo influenzato dal “non perdonare”, dal mantener vivo il fuoco della vendetta, ho iniziato a realizzare che facendo così sarei rimasto sospeso. Oggi, anche se non riesco a perdonare ciò che mi è stato fatto, ho trovato un modo migliore per conviverci, e a liberare me stesso dal dolore che mi è stato inflitto. Non è facile, anzi! Invidio che riesce a perdonare tutto. Penso però di aver imparato qualcosa, negli ultimi anni, soprattutto a non diventare dipendente dal desiderio di vendetta.
Ghili è la voce narrante del romanzo, e il suo è il punto di vista principale, ma lei continua a mettere come filtro il documentario. A un certo punto, possiamo dire che il filtro sia l’arte stessa, che si manifesta attraverso la ripresa documentaristica e la scrittura (del diario, ndr), e attraverso la quale forse anche noi raccontiamo le nostre vite persino a noi stessi.
Volevo che a raccontare la storia fosse uno dei quattro protagonisti. Non poteva essere Vera, perché il suo linguaggio è talmente peculiare che un intero romanzo così impostato sarebbe risultato quasi caricaturale. Le avrei fatto un torto. Allo stesso modo non poteva essere Nina, che è troppo distante dagli altri personaggi, troppo avvolta su se stessa. Ghili mi dava leggerezza: dopotutto è lontana dal dolore di Vera, a differenza di Nina che ne ha assorbito una parte patendone le conseguenze. Mi permetteva di usare un linguaggio più moderno, oltre a essere un personaggio che da un lato è profondamente ironico, e dall’altro è portatore di una parte del dolore narrato in La vita gioca con me.
Sul ruolo dell’arte, alla tua interpretazione voglio aggiungere che l’arte per me è ciò che ci permette di sentire il nulla e il vuoto della morte e allo stesso tempo la totalità piena della vita.
La vita gioca con me di David Grossman (Mondadori) è in libreria, al prezzo di copertina di 21€.
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