Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
La chiacchiera librosa di oggi è dedicata a "Crash" di Barbara Poscolieri, edito Dunwich Edizioni (ebook a 3,99€):
Alessandro Alari è un giovane pilota romano della scuderia Speed-Y, in corsa per il titolo mondiale del Grand Race. Durante il Circuito di Roma rimane vittima di un incidente in cui perde entrambe le gambe. Il mondo dei motori è sconvolto, così come tutte le persone vicine al pilota. Solo Alessandro crede che un ritorno alle gare sia ancora possibile, con o senza gambe. Inizia quindi un percorso di accettazione e di riabilitazione, supportato dalla fidanzata Federica, dai genitori e dagli amici, con l’obiettivo di riguadagnarsi il posto che merita nella vita e in pista. Ma nel frattempo la Speed-Y ha trovato un nuovo pilota e sembra non credere nel suo recupero. La fiducia di Alessandro vacilla e anche il rapporto con Federica ne risente. Si rifugia quindi nel suo piccolo paese d’origine, dove ritrova la serenità in una vita semplice. Ma il Grand Race invoca il suo nome e, per quanto Alessandro cerchi di ignorarne il richiamo, le corse restano parte di lui.
Bello, bello, bello.
Il romanzo di Barbara Poscolieri mi ha presa sin dalle prime pagina, nelle quali assistiamo al terribile incidente di Alessandro: uno scontro tra vetture che porta il suo compagno di scuderia a tranciare di netto il muso della sua vettura, portandosi via anche le gambe di quello che fino a quel momento era forse il pilota-rivelazione del Grand Race.
Alessandro, però, si sveglia in ospedale con una sola convinzione in testa: quella di tornare a guidare, e a correre. Ha sempre detto che avrebbe vinto il Grand Race, e non gli servono le gambe per farlo.
Non quando si può riadattare la sua macchina.
Certo, all'inizio sembra tutto perfetto: la macchina è pronta, la sua fidanzata Federica è un angelo, e i tifosi lo adorano.
Poi però subentrano le paure: e se non fosse più capace di guidare come prima? Se Federica se ne andasse? Se lui non potesse più essere la persona di prima?
È la paura a farlo letteralmente scappare a casa, nella sua vecchia stanza, a sporcarsi le mani nell'officina del padre e a ritrovare i vecchi amici.
La domanda è: tornerà ad essere Alessandro Alari, grande pilota? O il futuro che lo attende è diverso?
Mi è piaciuto moltissimo, ed era tanto che un romanzo non mi prendeva così.
L'autrice riesce a raccontare un uomo abituato a vivere a trecento all'ora nel momento in cui è costretto non solo a rallentare, ma a fermarsi.
Ne riesce a raccontare la paura, la frustrazione, il dolore della riabilitazione e quello nel suo cuore.
Nel giro di un istante ha perso quello che sapeva esere un futuro da vincitore, e quello che deve imparare è a esserlo in modo diverso.
Solo, non sa come fare, e ho trovato di una dolcezza disarmante il suo rifugiarsi nella casa e nella routine di famiglia, quasi a voler ricominciare da capo.
Sarà proprio uno dei suoi amici d'infanzia a dargli la scossa che gli serve, e soprattutto ci penserà Federica, a dimostrargli che lui potrà essere tante cose, ma non sarà mai un uomo a metà.
E in fondo nel terrore di Alessandro di non essere abbastanza e di non essere all'altezza delle aspettative possiamo ritrovarci tutti, piloti e non.
La prosa e i dialoghi di Barbara Poscolieri sono promossi a pieni voti, e così i suoi indimenticabili personaggi: cinque stelle.
Consigliatissimo, a lettori e lettrici: è uno dei romanzi più belli che ho letto quest'anno.
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
venerdì 28 aprile 2017
"Noi siamo tutto" di Nicola Yoon
Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
La chiacchiera librosa di oggi è dedicata a "Noi siamo tutto" di Nicola Yoon, edito Sperling & Kupfer (rilegato a 17,90€) in uscita il 16 Maggio:
Madeline Whittier è allergica al mondo. Soffre infatti di una patologia tanto rara quanto nota, che non le permette di entrare in contatto con il mondo esterno. Per questo non esce di casa, non l'ha mai fatto in diciassette anni. Mai un respiro d'aria fresca, né un raggio di sole caldo sul viso. Le uniche persone che può frequentare sono sua madre e la sua infermiera, Carla. Finché, un giorno, un camion di una ditta di traslochi si ferma nella sua via. Madeline è alla finestra quando vede. Lui. Il nuovo vicino. Alto, magro e vestito di nero dalla testa ai piedi: maglietta nera, jeans neri, scarpe da ginnastica nere e un berretto nero di maglia che gli nasconde completamente i capelli. Il suo nome è Olly. I loro sguardi si incrociano per un secondo. E anche se nella vita è impossibile prevedere sempre tutto, in quel secondo Madeline prevede che si innamorerà di lui. Anzi, ne è sicura. Come è quasi sicura che sarà un disastro. Perché, per la prima volta, quello che ha non le basta più. E per vivere anche solo un giorno perfetto è pronta a rischiare tutto. Tutto. Bestseller n1 del New York Times, e tuttora ai vertici delle classifiche negli Stati Uniti a oltre un anno di distanza dall'uscita, lo struggente e romantico romanzo d'esordio di Nicola Yoon è in corso di pubblicazione in 38 Paesi, e presto arriverà nelle sale cinematografiche l'omonimo film. Noi siamo tutto è una storia dolce e commovente, un libro destinato a diventare un cult.
Ho letto "Noi siamo tutto" sul mio cellulare, girando freneticamente pagina dopo pagina, facendo congetture e sì, in parte indovinando il finale - ma non del tutto.
Non sapevo cosa aspettarmi da questo romanzo, ma non credevo mi sarebbe piaciuto così tanto.
L'autrice riesce a creare un'iniziale atmosfera di sicurezza e conforto domestico, in cui Maddy è sì prigioniera in casa a causa della sua malattia, ma ha una vita piena di giochi, di letture, circondata dall'affetto della madre e di Carla, che non è solo la sua infermiera ma anche la sua confidente e la sua migliore amica.
La vediamo festeggiare il suo compleanno, e vivere ogni giornata seguendo una routine precisa che ormai scorre liscia come l'olio senza nulla che le faccia provare sorpresa... o paura.
Poi nella casa accanto si trasferisce una famiglia di quattro persone, e il figlio maggiore, Olly, cattura l'attenzione di Maddy.
Un ragazzo solitario, che si arrampica sul tetto di notte e con il quale inizia a comunicare prima attraverso dei cartelli esposti da dietro il vetro e poi online.
Con Olly, Maddy scopre di poter essere divertente, ironica, sarcastica... e interessante.
Interessante al punto che, per i due ragazzi, diventa molto difficile stare lontani l'uno dall'altra, e Maddy dovrà fare una scelta: rinunciare a Olly, o uscire dalla sua bolla e rischiare tutto.
Quando ho preso in mano questo romanzo, sapevo che i modi possibili per sviluppare una trama del genere erano, essenzialmente, due: o trasformarlo in un sick-romance per adolescenti, con Maddy che per amore esce, si ammala e muore, o rendere la madre una psicotica inserendo il colpo di scena per cui Maddy in realtà non fosse davvero malata.
Farla uscire per Olly, e farle scoprire di poter resistere senza le sue barriere protettive perchè - sorpresa! - in realtà non ne ha mai avuto bisogno.
Non posso e non voglio dirvi quale strada ha percorso Nicola Yoon, ma posso dirvi che mi è piaciuto moltissimo il suo modo di sviluppare la storia di Maddy e Olly.
A partire dalle piccole cose (i messaggi che Maddy lascia sui libri prima di farli uscire di casa, scritti immaginando chi potrebbe esserne il lettore successivo; il graduale passare dai primi messaggi a Olly, timidi ed esitanti, a quelli più diretti e spiritosi; il momento in cui Maddy, per la prima volta, si libera dei vestiti bianchi che indossa ogni giorno da sempre e scopre come le stia ogni colore dell'arcobaleno) e passando per quelli che sono i passaggi di svolta del romanzo, l'autrice non solo riesce a catturare l'attenzione del lettore, ma a emozionarlo profondamente.
Non è un libro che fa piangere, ma è sicuramente un libro che fa ridere, che fa provare compassione, che suscita empatia: ci si affeziona a Maddy da subito, e ad Olly bastano due apparizioni per rendersi indispensabile.
Intrigante lo sviluppo del personaggio della madre di Maddy: era forse quello più difficile da gestire, e l'autrice l'ha resa allo stesso tempo l'ancora di salvezza e la carceriera della figlia, due estremi difficili da conciliare ma evidentemente non per Nicola Yoon.
Consigliatissimo, acchiappatelo appena arriva in libreria!
Ho subito voluto sul mio cellulare anche il romanzo seguente dell'autrice, e soprattutto muoio dalla voglia di vedere il film tratto da "Noi siamo tutto":
Qui trovate la scheda del film e il trailer italiano!
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
La chiacchiera librosa di oggi è dedicata a "Noi siamo tutto" di Nicola Yoon, edito Sperling & Kupfer (rilegato a 17,90€) in uscita il 16 Maggio:
Ho letto "Noi siamo tutto" sul mio cellulare, girando freneticamente pagina dopo pagina, facendo congetture e sì, in parte indovinando il finale - ma non del tutto.
Non sapevo cosa aspettarmi da questo romanzo, ma non credevo mi sarebbe piaciuto così tanto.
L'autrice riesce a creare un'iniziale atmosfera di sicurezza e conforto domestico, in cui Maddy è sì prigioniera in casa a causa della sua malattia, ma ha una vita piena di giochi, di letture, circondata dall'affetto della madre e di Carla, che non è solo la sua infermiera ma anche la sua confidente e la sua migliore amica.
La vediamo festeggiare il suo compleanno, e vivere ogni giornata seguendo una routine precisa che ormai scorre liscia come l'olio senza nulla che le faccia provare sorpresa... o paura.
Poi nella casa accanto si trasferisce una famiglia di quattro persone, e il figlio maggiore, Olly, cattura l'attenzione di Maddy.
Un ragazzo solitario, che si arrampica sul tetto di notte e con il quale inizia a comunicare prima attraverso dei cartelli esposti da dietro il vetro e poi online.
Con Olly, Maddy scopre di poter essere divertente, ironica, sarcastica... e interessante.
Interessante al punto che, per i due ragazzi, diventa molto difficile stare lontani l'uno dall'altra, e Maddy dovrà fare una scelta: rinunciare a Olly, o uscire dalla sua bolla e rischiare tutto.
Quando ho preso in mano questo romanzo, sapevo che i modi possibili per sviluppare una trama del genere erano, essenzialmente, due: o trasformarlo in un sick-romance per adolescenti, con Maddy che per amore esce, si ammala e muore, o rendere la madre una psicotica inserendo il colpo di scena per cui Maddy in realtà non fosse davvero malata.
Farla uscire per Olly, e farle scoprire di poter resistere senza le sue barriere protettive perchè - sorpresa! - in realtà non ne ha mai avuto bisogno.
Non posso e non voglio dirvi quale strada ha percorso Nicola Yoon, ma posso dirvi che mi è piaciuto moltissimo il suo modo di sviluppare la storia di Maddy e Olly.
A partire dalle piccole cose (i messaggi che Maddy lascia sui libri prima di farli uscire di casa, scritti immaginando chi potrebbe esserne il lettore successivo; il graduale passare dai primi messaggi a Olly, timidi ed esitanti, a quelli più diretti e spiritosi; il momento in cui Maddy, per la prima volta, si libera dei vestiti bianchi che indossa ogni giorno da sempre e scopre come le stia ogni colore dell'arcobaleno) e passando per quelli che sono i passaggi di svolta del romanzo, l'autrice non solo riesce a catturare l'attenzione del lettore, ma a emozionarlo profondamente.
Non è un libro che fa piangere, ma è sicuramente un libro che fa ridere, che fa provare compassione, che suscita empatia: ci si affeziona a Maddy da subito, e ad Olly bastano due apparizioni per rendersi indispensabile.
Intrigante lo sviluppo del personaggio della madre di Maddy: era forse quello più difficile da gestire, e l'autrice l'ha resa allo stesso tempo l'ancora di salvezza e la carceriera della figlia, due estremi difficili da conciliare ma evidentemente non per Nicola Yoon.
Consigliatissimo, acchiappatelo appena arriva in libreria!
Ho subito voluto sul mio cellulare anche il romanzo seguente dell'autrice, e soprattutto muoio dalla voglia di vedere il film tratto da "Noi siamo tutto":
Qui trovate la scheda del film e il trailer italiano!
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
giovedì 27 aprile 2017
Combatti la pelle secca, con i nuovi Oli Doccia di Neutro Roberts
Buon pomeriggio a tutte, fanciulle!
Se c'è una cosa alla quale non so dire di no è proprio una doccia rilassante alla fine di una lunga giornata, e un prodotto che non può mancare è l'olio.
Ne ho provati diversi, ma oggi posso mostrarvene tre che sono assolutamente da provare: i nuovi Oli Doccia di Neutro Roberts (prezzo consigliato: 3,49€):
Mi basta questo per aver voglia di entrare nella mia cabina e aprire l'acqua ;)
Una linea priva di parabeni, SLES, SLS, glicole propilenico, sapone, petrolati, alcool, siliconi, fenossietanolo, oli minerali, paraffina e oli di vasellina: piacerà anche alle più attente all'INCI, e io non vedo l'ora di provarla!
La troverete nei supermercati e negli ipermercati, e sono sicura che vi conquisterà ;)
Un bacio a tutte, fanciulle!
A presto <3
Se c'è una cosa alla quale non so dire di no è proprio una doccia rilassante alla fine di una lunga giornata, e un prodotto che non può mancare è l'olio.
Ne ho provati diversi, ma oggi posso mostrarvene tre che sono assolutamente da provare: i nuovi Oli Doccia di Neutro Roberts (prezzo consigliato: 3,49€):
Perfetti per la pelle secca, che "tira" e che ha bisogno di una coccola in più, e in tre varianti per andare in contro a ogni esigenza: l’Olio di Argan per un nutrimento intenso, l’Olio di Mandorla dalle proprietà elasticizzanti e tonificanti, l’Olio di Cocco per un effetto setificante e illuminante.
E immaginate i profumi!Mi basta questo per aver voglia di entrare nella mia cabina e aprire l'acqua ;)
Una linea priva di parabeni, SLES, SLS, glicole propilenico, sapone, petrolati, alcool, siliconi, fenossietanolo, oli minerali, paraffina e oli di vasellina: piacerà anche alle più attente all'INCI, e io non vedo l'ora di provarla!
La troverete nei supermercati e negli ipermercati, e sono sicura che vi conquisterà ;)
Un bacio a tutte, fanciulle!
A presto <3
L'ultimo amore di Van Gogh: intervista a Jean-Micheal Guennasia
Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Oggi sul blog parliamo di Van Gogh, di notti stellate e di amori.
E lo facciamo con Jean-Michel Guennasia, che è tornato in libreria con "Il valzer degli alberi e del cielo", edito Salani (brossurato a 16,90€):
Nella torrida estate del 1890, a Auvers-sur-Oise, un uomo si presenta a casa del dottor Gachet: dall’aspetto, Marguerite, figlia del medico, lo scambia per uno dei tanti braccianti agricoli che lavorano nella zona. L’uomo è Vincent van Gogh, e per Marguerite, che ama dipingere ma si dibatte tra l’insoddisfazione di non riuscire a creare nulla di apprezzabile e una condizione di figlia predestinata a un matrimonio borghese, egli assume, giorno dopo giorno, le fattezze del maestro, del genio, dell’amore. Guardandolo dipingere, la giovane vede ora i paesaggi in cui è cresciuta – le case dai tetti di paglia, le acque del fiume, i fiori, gli alberi, il cielo – con nuovi occhi: la potenza della vera arte si dispiega davanti a lei, mentre la relazione con Vincent si fa sempre più stretta, più pericolosa e infine fatale. Mettendo insieme, come nel Club degli incorreggibili ottimisti, potenza del racconto e verità documentaria, e consegnandoci pagine di vera poesia quando assistiamo insieme a Marguerite alla nascita dei capolavori di van Gogh, Guenassia fa rivivere l’epoca d’oro degli impressionisti e getta una nuova luce sulla tragica fine dell’artista e sui misteri che circondano alcune delle sue opere; e lo fa come sempre da un’angolatura originale, tratteggiando ancora una volta un’indimenticabile figura femminile.
Abbiamo potuto incontrare l'autore nella splendida cornice della Triennale di Milano, per un aperitivo e una chiacchierata che ha visti protagonisti il romanzo, Van Gogh, l'arte... ecco cosa ci ha raccontato!
Cosa cercava - e cosa ha trovato - scrivendo questo libro su Van Gogh?
Quello che mi ha attratto prima di tutto è il mistero di Van Gogh, sulla sua morte e sui tanti falsi quadri suoi che circolano nel mondo: tutto questo è un materiale fantastico per una persona che scrive come me. Poi volevo concentrarmi sull'uomo e cercare di capire chi fosse, non "Van Gogh" ma "Vincent", come del resto lui amava firmare i suoi quadri.
Van Gogh è un personaggio abbastanza criticato e discusso. Si è fatto un'idea personale sull'uomo?
Credo che in realtà sia stato più ammirato che criticato. La sua malattia per lui era qualcosa di secondario: oggi si sa che era bipolare, con dei giorni buoni e dei giorni cattivi. Oltretutto aveva anche smesso di bere, e nel complesso stava molto meglio. Quando è arrivato a Auvers-sur-Oise nel 1890 era un uomo che aveva tantissimi progetti, brulicava di idee e sicuramente non aveva tendenze suicide: aveva in mente di organizzare delle mostre e di ritrovare il suo amico Gaugain, col quale aveva riallacciato i rapporti. Aveva tantissime speranze, che emergono dalla corrispondenza che è stata ritrovata.
La leggenda dell'artista maledetto, suicida perché respinto dalla società, in realtà è del tutto falsa.
In quel momento possiamo dire che tutti erano maledetti, perché Pisarro non vendeva niente, Gauguin era un morto di fame... La teoria del suo suicidio è stata costruita a tavolino.
Però gli è capitato quello che succede spesso con le persone di talento che muoiono giovani, magari che hanno una morte brutale, e che vengono circondate da una sorta di aureola dall'immaginario collettivo: pensiamo a John Kennedy, di cui parliamo ancora tanto perché è morto giovane e in modo violento, oppure ricordiamo Marylin Monroe e non Elizabeth Taylor, perché la prima è scomparsa da giovane e la seconda a ottant'anni. Chi muore giovane ci rimane di più nel cuore. Piangiamo ancora James Dean, anche se ci piacciono Brigitte Bardot o Robert De Niro, che però adesso hanno ottant'anni e non risvegliano le stesse emozioni.
Si dice che Van Gogh fosse bipolare, si è anche ipotizzato che fosse schizofrenico.
Dai suoi studi cosa è venuto fuori?
Non c'era affatto schizofrenia in Van Gogh. Se leggiamo la sua corrispondenza appare come una persona normale. Era bipolare, ma a quell'epoca non si conosceva la patologia e non c'erano medicinali per curarla. Forse era epilettico, ma non schizofrenico. Il suo grande problema era che beveva tantissimo: si ubriacava continuamente con l'assenzio. L'episodio dell'orecchio tagliato, che coinvolge Gauguin, avvenne in un momento in cui entrambi erano ubriachi fradici.
Quando è stato ricoverato nell'ospedale di Saint-Rémy, Vincent ha incontrato un medico che l'ha preso particolarmente a cuore e l'ha convinto a smettere di bere, e da quel momento la sua salute è migliorata tantissimo. Basta leggere le sue lettere per capire che tutto sommato stava bene, e leggendole senza conoscere i suoi problemi precedenti non li si intuisce per nulla.
In più, lavorava tantissimo.
Il personaggio principale del romanzo, comunque, è Marguerite, una giovane donna che a 19 anni, nel 1890, si rivolta contro la condizione di donna, l'obbligo di sposarsi e di non lavorare. Rivendica la sua libertà, s'innamora della pittura e di un uomo.
Mi ha fatto piacere ritrovare questo tema delle donne che cercano l'autonomia, soprattutto come artista, ma la cosa che mi ha intrigato di più è la questione dei falsi.
C'è la verità e c'è la licenza poetica. È sicuro che ci sono molti falsi di pittori famosi, e che pittori meno famosi ricevono denaro per copiarli. Già nel Rinascimento i grandi pittori erano circondati da falsari. Van Gogh è il primo della sua generazione ad aver avuto molto successo. Il prezzo delle sue opere è schizzato in su già nei primi anni del Novecento, e molti di coloro che l'avevano conosciuto hanno iniziato a dipingere dei falsi. Si sa con certezza che molti dei falsi sono usciti dalla casa del dottor Gachet, e che Marguerite e suo fratello hanno fatto una favolosa donazione di 53 tele al Museo degli Impressionisti, quando era ancora al Louvre, e che in questa donazione c'erano otto falsi, cinque di Van Gogh e tre di Cézanne. Lo stesso Gachet aveva regalato alla cognata di Van Gogh, la moglie del fratello Theo, tre falsi che oggi sono al Museo Van Gogh di Amsterdam.
Aveva anche venduto delle tele false a degli americani, che le hanno rivendute al Metropolitan Museum: in tutti i musei c'è qualche quadro falso di Van Gogh.
Oggi disponiamo dei mezzi scientifici che consentono di scoprire, nella maggior parte dei casi, chi ha dipinto quei falsi, e tra loro non c'è Marguerite Gachet. Però mi piaceva l'idea che lei dipingesse per amore i quadri di Vincent che non c'era più, questa è una mia licenza poetica.
Visto che si sa che questi quadri sono falsi, perché sono rimasti nei musei?
Perché in molti casi queste tele sono state contestate da poco, e anche perché a un museo non fa mai piacere dover ritirare un dipinto famosissimo ammettendo che è un falso: ne va del suo prestigio.
Al Museo Van Gogh di Amsterdam hanno ritirato alcuni quadri tre anni fa, senza dire il motivo, ma li hanno fatti comunque sparire. Anche il Museo d'Orsay ha fatto la stessa cosa, ma non ha eliminato il secondo ritratto del dottor Gachet che pare proprio sia falso. Per risalire alla veridicità delle tele di Van Gogh c'è un sistema che passa attraverso le lettere che scriveva al fratello elencandogli i quadri fatti.
Non dobbiamo dimenticare che Vincent era protestante, voleva fare il pastore, era entrato in seminario anche se poi ne era stato cacciato, ma aveva comunque un grande rigore morale e non avrebbe mai fatto nulla d'illegale: era molto scrupoloso. Theo era il suo mercante e lui gli rendeva conto di tutto ciò che faceva. Basta fare la lista dei quadri nominati nelle lettere per averne il conto esatto. Se di alcune tele non c'è traccia nella corrispondenza, vuol dire che sono quantomeno sospette.
Quando poi avrebbe potuto dipingere tutte queste tele che gli vengono attribuite?
Ha passato settanta giorni a Auvers e sembra che abbia dipinto settantacinque o addirittura ottantacinque tele in quel periodo, ma dalla corrispondenza ne risultano solo cinquantotto.
Anche dal punto di vista delle opere, che erano piene di dettagli, non è possibile che sia riuscito a dipingerne così tante. Ufficialmente, però, da tutte le tele presenti nei musei del mondo sembra che ne abbia dipinte settantacinque.
C'è anche un altro aspetto: lui era molto povero, comprava tutto il materiale sempre nello stesso negozio di Montmartre ed era sempre quello più economico, dalla tela ai colori.
Se un dipinto è su una tela di alta qualità e fatto con pigmenti costosi, sicuramente non è suo.
Van Gogh, più che pazzo, sembra in effetti malato del suo lavoro.
Dipinge furiosamente e non ce la fa a smettere di creare, tanto da rifiutarsi di avere una famiglia perché la sua vita è dedicata all'arte.
La pittura è il solo soggetto che l'interessa, la sola cosa di cui parla nelle sue lettere: ne era pazzo, ma si rendeva conto che non avrebbe potuto mantenere una famiglia.
Vede attorno a lui altri pittori che hanno famiglie che non riescono a mantenere: Gauguin aveva abbandonato moglie e cinque figli in Danimarca lasciando loro dei quadri che non valevano nulla, mentre Pizarro aveva ottofigli che quasi morivano di fame.
Lui, con la piccola pensione che gli passava il fratello riusciva a vivere dignitosamente, ma una moglie avrebbe avuto delle necessità che lui non sarebbe riuscito a soddisfare.
La pittura è stata per lui una religione, come se avesse preso i voti, ed era felice così.
Dalle sue ultime lettere non sembra un uomo malato, ma solo ossessionato dalla pittura: è così per tutti i grandi artisti e lui ha raggiunto il suo livello perché lavorava come un forsennato.
Monet è morto a 83 anni e ha dipinto fino a tre giorni prima, e lo stesso ha fatto Renoir, nonostante avesse le mani ormai deformate dall'artrite.
Lei, da scrittore, ha mai sentito questa sensazione così totalizzante?
Sì, anch'io un po' vivo queste sensazioni, perché scrivere ti occupa tantissimo tempo.
Per scrivere "Il club degli incorreggibili ottimisti" ho impiegato sei anni.
C'è un momento in cui capita di perderti nella scrittura.
Adesso però vado un po' più veloce, e per fortuna non ho raggiunto i livelli di follia di Van Gogh.
A un certo punto mi sento quasi intontito: arriva un momento in cui, dopo una giornata di lavoro, non ce la faccio più. Non ci vedo neanche più, e capisco che mi devo fermare.
Come mai ha deciso di interrompere e di arrichire la narrazione inserendo passi di lettere e di articoli dell'epoca?
Mi sono reso conto che non conoscevo abbastanza quell'epoca.
Non mi rendevo conto di quanto fosse violenta e brutale, razzista, antisemita e inverosimilmente misogina. Le donne non avevano alcun diritto, tanto che oggi si dimentica che Van Gogh non poteva nemmeno immaginare che una donna dipingesse. Però citatemi una sola donna pittrice di fama nel XIX secolo: non ce ne sono. In Francia forse ce n'è stata una.
Ce n'erano prima, nel XVII o XVIII secolo, ma non nel XIX secolo.
La società era completamente chiusa: in particolar modo in Francia le donne erano escluse dalle attività professionali. Pensate alle protagoniste dei romanzi di Henry James o alla stessa Madame Bovary, a come dovessero soffrire.
Quando Marguerite vuole dipingere, Van Gogh pensa che sia per distrarsi, non certo per esporre - ma non è lui il misogino, è tutta la società che è così.
Non volendo scrivere un romanzo storico, ho deciso di adottare questa forma degli intercalari per creare un background, in cui il lettore potesse immergersi nel contesto dell'epoca e capire, contestualizzare la storia che stavo raccontando.
Prima ha detto che è difficilissimo scrivere di pittura o di musica: come ha fatto a calarsi nei panni di Van Gogh?
Quando ho iniziato a scrivere questo libro mi sono detto che se non fossi riuscito a raccontare la pittura in modo viscerale non l'avrei scritto.
Ho cercato di esprimere la pittura nel modo più semplice possibile in modo che il lettore sentisse la pittura che stavo cercando di descrivere, facendo leva sul sentimento e su quello che la persona percepisce e non sul modo intellettuale.
Le descrizioni sono fatte con gli occhi di Marguerite, che attraverso l'arte vede il mondo in modo diverso. Questa cosa induce il lettore a guardare Van Gogh con occhi nuovi.
Non avrei potuto raccontare la storia dal punto di vista di Van Gogh. Il narratore è Marguerite, perché lei non vede Van Gogh, ma un uomo che si chiama Vincent. Vi faccio notare che in 276 pagine mai una volta scrivo "Van Gogh" ma sempre e solo "Vincent". Siete voi che lo pensate, io non l'ho mai scritto. Solo nell'ultima pagina, quando lui è già morto, allora lo chiamo così, perché è solo dopo la sua morte che diventa Van Gogh, che diventa l'icona, il personaggio famoso, e non prima.
Noi vediamo attraverso gli occhi di Marguerite e le sue parole. Ho voluto così questa storia perché mi sono sempre chiesto: chissà cos'avranno pensato le persone quando hanno visto per la prima volta un quadro di Van Gogh? Non so come andò in Italia, ma in Francia le prime mostre degli impressionisti furono accolte in modo terribile, con fischi, perché si diceva che non erano pittori e che dipingevano come delle scimmie. Questo è quello che ho cercato di raccontare.
E cos'ha pensato lei la prima volta che ha visto un quadro di Van Gogh?
Non saprei, perché è passato moltissimo tempo. Noi siamo nati con queste bellezze: non siamo mai stati scioccati da una cosa completamente nuova. Una cosa però mi ha intrigato: visito molti musei perché mi piace, in Italia e in Francia. Vado spesso al Museo d'Orsay dove ammiravo i Van Gogh, poi a un certo punto ho scoperto la storia dei quadri falsi. Quando ho rivisto queste tele, pur sapendo che erano false le trovavo comunque splendide, per cui mi sono chiesto: ma perché, chi sto ammirando? Un falsario, eppure è lo stesso un quadro meraviglioso, ad esempio il secondo ritratto del dottor Gachet. So che è falso, ma è comunque bellissimo.
È il nostro rapporto con la pittura che va indagato.
In questo libro il dottor Gachet, considerato da sempre un mecenate e protettore degli impressionisti, appare come una figura piuttosto meschina. Come è avvenuto questo ribaltamento?
Non sono d'accordo. Il dottor Gachet non è poi così cattivo, visto che curava gratis tutti quegli artisti che poi lo pagavano con tele che, allora, non avevano nessun valore. Era un po' radical chic: amava tutto ciò che era avanguardia. Quello che non poteva immaginare era che sua figlia avesse una storia con Van Gogh. Lui ha fatto tutto quello che facevano i padri dell'epoca - che avevano il diritto di correzione, cioè di picchiare mogli, figli e servitù senza incorrere in nessun tipo di sanzione. È la figlia che fa cose che una ragazza di buona famiglia dell'epoca non avrebbe mai pensato di fare.
Il dottor Gachet in definitiva appare cattivo soprattutto agli occhi di Marguerite, perché tutto il romanzo è scritto dal suo punto di vista.
In principio Marguerite appare più che altro come la classica adolescente ribelle, poi cresce e diventa un personaggio più rotondo e si comprendono di più le sue ragioni. Del resto, s'innamora di Vincent proprio perché è Vincent, non perché pensa sia un grande pittore.
Non si può essere pittori accanto a Van Gogh: solo Gauguin lo era, e infatti non andavano molto d'accordo. Una cosa molto bella tra loro era però il sentimento di ammirazione reciproca che li animava. Ognuno pensava che l'altro fosse migliore, ma senza gelosia. Avevano del resto due stili molto diversi, e infatti i seguaci di Gauguin sono stati pochi, mentre Van Gogh ha aperto una via enorme dopo di lui.
Il romanzo si svolge a fine Ottocento, mentre oggi le cose sono molto cambiate. L'arte contemporanea è diversa, le cifre sono esorbitanti. Come sarebbe scrivere un romanzo su un artista contemporaneo?
Per scrivere un libro su Jeff Koons dovrebbe prima di tutto lui essere un artista...
Non sono sensibile all'arte contemporanea perché per me tutto ciò che non mi fa provare emozioni è qualcosa che non mi arriva.
Cosa resterà allora, secondo lei, dell'arte contemporanea?
C'è qualche grande artista, come Basquiat, ce ne sono anzi parecchi, ma l'arte ha sempre avuto un valore monetizzato e monetizzabile, infatti esistono i falsari ed esiste la speculazione.
Pensate a Vermeer, che ora è tra i grandi ma quand'era in vita le sue tele non avevano nessun valore.
In Francia certi pittori hanno avuto valore per un certo periodo, e magari oggi non ne hanno più, per cui non si può ridurre l'arte a un valore monetario.
La cosa importante è guardare un quadro per quello che è e per la gioia che ti fa provare.
Grazie di cuore a Salani e all'autore per questa splendida opportunità di confronto e di arricchimento: "Il valzer degli alberi e del cielo" è un romanzo splendido, davvero imperdibile per gli amanti dell'arte - e non.
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
Oggi sul blog parliamo di Van Gogh, di notti stellate e di amori.
E lo facciamo con Jean-Michel Guennasia, che è tornato in libreria con "Il valzer degli alberi e del cielo", edito Salani (brossurato a 16,90€):
Nella torrida estate del 1890, a Auvers-sur-Oise, un uomo si presenta a casa del dottor Gachet: dall’aspetto, Marguerite, figlia del medico, lo scambia per uno dei tanti braccianti agricoli che lavorano nella zona. L’uomo è Vincent van Gogh, e per Marguerite, che ama dipingere ma si dibatte tra l’insoddisfazione di non riuscire a creare nulla di apprezzabile e una condizione di figlia predestinata a un matrimonio borghese, egli assume, giorno dopo giorno, le fattezze del maestro, del genio, dell’amore. Guardandolo dipingere, la giovane vede ora i paesaggi in cui è cresciuta – le case dai tetti di paglia, le acque del fiume, i fiori, gli alberi, il cielo – con nuovi occhi: la potenza della vera arte si dispiega davanti a lei, mentre la relazione con Vincent si fa sempre più stretta, più pericolosa e infine fatale. Mettendo insieme, come nel Club degli incorreggibili ottimisti, potenza del racconto e verità documentaria, e consegnandoci pagine di vera poesia quando assistiamo insieme a Marguerite alla nascita dei capolavori di van Gogh, Guenassia fa rivivere l’epoca d’oro degli impressionisti e getta una nuova luce sulla tragica fine dell’artista e sui misteri che circondano alcune delle sue opere; e lo fa come sempre da un’angolatura originale, tratteggiando ancora una volta un’indimenticabile figura femminile.
Abbiamo potuto incontrare l'autore nella splendida cornice della Triennale di Milano, per un aperitivo e una chiacchierata che ha visti protagonisti il romanzo, Van Gogh, l'arte... ecco cosa ci ha raccontato!
Cosa cercava - e cosa ha trovato - scrivendo questo libro su Van Gogh?
Quello che mi ha attratto prima di tutto è il mistero di Van Gogh, sulla sua morte e sui tanti falsi quadri suoi che circolano nel mondo: tutto questo è un materiale fantastico per una persona che scrive come me. Poi volevo concentrarmi sull'uomo e cercare di capire chi fosse, non "Van Gogh" ma "Vincent", come del resto lui amava firmare i suoi quadri.
Van Gogh è un personaggio abbastanza criticato e discusso. Si è fatto un'idea personale sull'uomo?
Credo che in realtà sia stato più ammirato che criticato. La sua malattia per lui era qualcosa di secondario: oggi si sa che era bipolare, con dei giorni buoni e dei giorni cattivi. Oltretutto aveva anche smesso di bere, e nel complesso stava molto meglio. Quando è arrivato a Auvers-sur-Oise nel 1890 era un uomo che aveva tantissimi progetti, brulicava di idee e sicuramente non aveva tendenze suicide: aveva in mente di organizzare delle mostre e di ritrovare il suo amico Gaugain, col quale aveva riallacciato i rapporti. Aveva tantissime speranze, che emergono dalla corrispondenza che è stata ritrovata.
La leggenda dell'artista maledetto, suicida perché respinto dalla società, in realtà è del tutto falsa.
In quel momento possiamo dire che tutti erano maledetti, perché Pisarro non vendeva niente, Gauguin era un morto di fame... La teoria del suo suicidio è stata costruita a tavolino.
Però gli è capitato quello che succede spesso con le persone di talento che muoiono giovani, magari che hanno una morte brutale, e che vengono circondate da una sorta di aureola dall'immaginario collettivo: pensiamo a John Kennedy, di cui parliamo ancora tanto perché è morto giovane e in modo violento, oppure ricordiamo Marylin Monroe e non Elizabeth Taylor, perché la prima è scomparsa da giovane e la seconda a ottant'anni. Chi muore giovane ci rimane di più nel cuore. Piangiamo ancora James Dean, anche se ci piacciono Brigitte Bardot o Robert De Niro, che però adesso hanno ottant'anni e non risvegliano le stesse emozioni.
Si dice che Van Gogh fosse bipolare, si è anche ipotizzato che fosse schizofrenico.
Dai suoi studi cosa è venuto fuori?
Non c'era affatto schizofrenia in Van Gogh. Se leggiamo la sua corrispondenza appare come una persona normale. Era bipolare, ma a quell'epoca non si conosceva la patologia e non c'erano medicinali per curarla. Forse era epilettico, ma non schizofrenico. Il suo grande problema era che beveva tantissimo: si ubriacava continuamente con l'assenzio. L'episodio dell'orecchio tagliato, che coinvolge Gauguin, avvenne in un momento in cui entrambi erano ubriachi fradici.
Quando è stato ricoverato nell'ospedale di Saint-Rémy, Vincent ha incontrato un medico che l'ha preso particolarmente a cuore e l'ha convinto a smettere di bere, e da quel momento la sua salute è migliorata tantissimo. Basta leggere le sue lettere per capire che tutto sommato stava bene, e leggendole senza conoscere i suoi problemi precedenti non li si intuisce per nulla.
In più, lavorava tantissimo.
Il personaggio principale del romanzo, comunque, è Marguerite, una giovane donna che a 19 anni, nel 1890, si rivolta contro la condizione di donna, l'obbligo di sposarsi e di non lavorare. Rivendica la sua libertà, s'innamora della pittura e di un uomo.
Mi ha fatto piacere ritrovare questo tema delle donne che cercano l'autonomia, soprattutto come artista, ma la cosa che mi ha intrigato di più è la questione dei falsi.
C'è la verità e c'è la licenza poetica. È sicuro che ci sono molti falsi di pittori famosi, e che pittori meno famosi ricevono denaro per copiarli. Già nel Rinascimento i grandi pittori erano circondati da falsari. Van Gogh è il primo della sua generazione ad aver avuto molto successo. Il prezzo delle sue opere è schizzato in su già nei primi anni del Novecento, e molti di coloro che l'avevano conosciuto hanno iniziato a dipingere dei falsi. Si sa con certezza che molti dei falsi sono usciti dalla casa del dottor Gachet, e che Marguerite e suo fratello hanno fatto una favolosa donazione di 53 tele al Museo degli Impressionisti, quando era ancora al Louvre, e che in questa donazione c'erano otto falsi, cinque di Van Gogh e tre di Cézanne. Lo stesso Gachet aveva regalato alla cognata di Van Gogh, la moglie del fratello Theo, tre falsi che oggi sono al Museo Van Gogh di Amsterdam.
Aveva anche venduto delle tele false a degli americani, che le hanno rivendute al Metropolitan Museum: in tutti i musei c'è qualche quadro falso di Van Gogh.
Oggi disponiamo dei mezzi scientifici che consentono di scoprire, nella maggior parte dei casi, chi ha dipinto quei falsi, e tra loro non c'è Marguerite Gachet. Però mi piaceva l'idea che lei dipingesse per amore i quadri di Vincent che non c'era più, questa è una mia licenza poetica.
Visto che si sa che questi quadri sono falsi, perché sono rimasti nei musei?
Perché in molti casi queste tele sono state contestate da poco, e anche perché a un museo non fa mai piacere dover ritirare un dipinto famosissimo ammettendo che è un falso: ne va del suo prestigio.
Al Museo Van Gogh di Amsterdam hanno ritirato alcuni quadri tre anni fa, senza dire il motivo, ma li hanno fatti comunque sparire. Anche il Museo d'Orsay ha fatto la stessa cosa, ma non ha eliminato il secondo ritratto del dottor Gachet che pare proprio sia falso. Per risalire alla veridicità delle tele di Van Gogh c'è un sistema che passa attraverso le lettere che scriveva al fratello elencandogli i quadri fatti.
Non dobbiamo dimenticare che Vincent era protestante, voleva fare il pastore, era entrato in seminario anche se poi ne era stato cacciato, ma aveva comunque un grande rigore morale e non avrebbe mai fatto nulla d'illegale: era molto scrupoloso. Theo era il suo mercante e lui gli rendeva conto di tutto ciò che faceva. Basta fare la lista dei quadri nominati nelle lettere per averne il conto esatto. Se di alcune tele non c'è traccia nella corrispondenza, vuol dire che sono quantomeno sospette.
Quando poi avrebbe potuto dipingere tutte queste tele che gli vengono attribuite?
Ha passato settanta giorni a Auvers e sembra che abbia dipinto settantacinque o addirittura ottantacinque tele in quel periodo, ma dalla corrispondenza ne risultano solo cinquantotto.
Anche dal punto di vista delle opere, che erano piene di dettagli, non è possibile che sia riuscito a dipingerne così tante. Ufficialmente, però, da tutte le tele presenti nei musei del mondo sembra che ne abbia dipinte settantacinque.
C'è anche un altro aspetto: lui era molto povero, comprava tutto il materiale sempre nello stesso negozio di Montmartre ed era sempre quello più economico, dalla tela ai colori.
Se un dipinto è su una tela di alta qualità e fatto con pigmenti costosi, sicuramente non è suo.
Van Gogh, più che pazzo, sembra in effetti malato del suo lavoro.
Dipinge furiosamente e non ce la fa a smettere di creare, tanto da rifiutarsi di avere una famiglia perché la sua vita è dedicata all'arte.
La pittura è il solo soggetto che l'interessa, la sola cosa di cui parla nelle sue lettere: ne era pazzo, ma si rendeva conto che non avrebbe potuto mantenere una famiglia.
Vede attorno a lui altri pittori che hanno famiglie che non riescono a mantenere: Gauguin aveva abbandonato moglie e cinque figli in Danimarca lasciando loro dei quadri che non valevano nulla, mentre Pizarro aveva ottofigli che quasi morivano di fame.
Lui, con la piccola pensione che gli passava il fratello riusciva a vivere dignitosamente, ma una moglie avrebbe avuto delle necessità che lui non sarebbe riuscito a soddisfare.
La pittura è stata per lui una religione, come se avesse preso i voti, ed era felice così.
Dalle sue ultime lettere non sembra un uomo malato, ma solo ossessionato dalla pittura: è così per tutti i grandi artisti e lui ha raggiunto il suo livello perché lavorava come un forsennato.
Monet è morto a 83 anni e ha dipinto fino a tre giorni prima, e lo stesso ha fatto Renoir, nonostante avesse le mani ormai deformate dall'artrite.
Lei, da scrittore, ha mai sentito questa sensazione così totalizzante?
Sì, anch'io un po' vivo queste sensazioni, perché scrivere ti occupa tantissimo tempo.
Per scrivere "Il club degli incorreggibili ottimisti" ho impiegato sei anni.
C'è un momento in cui capita di perderti nella scrittura.
Adesso però vado un po' più veloce, e per fortuna non ho raggiunto i livelli di follia di Van Gogh.
A un certo punto mi sento quasi intontito: arriva un momento in cui, dopo una giornata di lavoro, non ce la faccio più. Non ci vedo neanche più, e capisco che mi devo fermare.
Come mai ha deciso di interrompere e di arrichire la narrazione inserendo passi di lettere e di articoli dell'epoca?
Mi sono reso conto che non conoscevo abbastanza quell'epoca.
Non mi rendevo conto di quanto fosse violenta e brutale, razzista, antisemita e inverosimilmente misogina. Le donne non avevano alcun diritto, tanto che oggi si dimentica che Van Gogh non poteva nemmeno immaginare che una donna dipingesse. Però citatemi una sola donna pittrice di fama nel XIX secolo: non ce ne sono. In Francia forse ce n'è stata una.
Ce n'erano prima, nel XVII o XVIII secolo, ma non nel XIX secolo.
La società era completamente chiusa: in particolar modo in Francia le donne erano escluse dalle attività professionali. Pensate alle protagoniste dei romanzi di Henry James o alla stessa Madame Bovary, a come dovessero soffrire.
Quando Marguerite vuole dipingere, Van Gogh pensa che sia per distrarsi, non certo per esporre - ma non è lui il misogino, è tutta la società che è così.
Non volendo scrivere un romanzo storico, ho deciso di adottare questa forma degli intercalari per creare un background, in cui il lettore potesse immergersi nel contesto dell'epoca e capire, contestualizzare la storia che stavo raccontando.
Prima ha detto che è difficilissimo scrivere di pittura o di musica: come ha fatto a calarsi nei panni di Van Gogh?
Quando ho iniziato a scrivere questo libro mi sono detto che se non fossi riuscito a raccontare la pittura in modo viscerale non l'avrei scritto.
Ho cercato di esprimere la pittura nel modo più semplice possibile in modo che il lettore sentisse la pittura che stavo cercando di descrivere, facendo leva sul sentimento e su quello che la persona percepisce e non sul modo intellettuale.
Le descrizioni sono fatte con gli occhi di Marguerite, che attraverso l'arte vede il mondo in modo diverso. Questa cosa induce il lettore a guardare Van Gogh con occhi nuovi.
Non avrei potuto raccontare la storia dal punto di vista di Van Gogh. Il narratore è Marguerite, perché lei non vede Van Gogh, ma un uomo che si chiama Vincent. Vi faccio notare che in 276 pagine mai una volta scrivo "Van Gogh" ma sempre e solo "Vincent". Siete voi che lo pensate, io non l'ho mai scritto. Solo nell'ultima pagina, quando lui è già morto, allora lo chiamo così, perché è solo dopo la sua morte che diventa Van Gogh, che diventa l'icona, il personaggio famoso, e non prima.
Noi vediamo attraverso gli occhi di Marguerite e le sue parole. Ho voluto così questa storia perché mi sono sempre chiesto: chissà cos'avranno pensato le persone quando hanno visto per la prima volta un quadro di Van Gogh? Non so come andò in Italia, ma in Francia le prime mostre degli impressionisti furono accolte in modo terribile, con fischi, perché si diceva che non erano pittori e che dipingevano come delle scimmie. Questo è quello che ho cercato di raccontare.
E cos'ha pensato lei la prima volta che ha visto un quadro di Van Gogh?
Non saprei, perché è passato moltissimo tempo. Noi siamo nati con queste bellezze: non siamo mai stati scioccati da una cosa completamente nuova. Una cosa però mi ha intrigato: visito molti musei perché mi piace, in Italia e in Francia. Vado spesso al Museo d'Orsay dove ammiravo i Van Gogh, poi a un certo punto ho scoperto la storia dei quadri falsi. Quando ho rivisto queste tele, pur sapendo che erano false le trovavo comunque splendide, per cui mi sono chiesto: ma perché, chi sto ammirando? Un falsario, eppure è lo stesso un quadro meraviglioso, ad esempio il secondo ritratto del dottor Gachet. So che è falso, ma è comunque bellissimo.
È il nostro rapporto con la pittura che va indagato.
In questo libro il dottor Gachet, considerato da sempre un mecenate e protettore degli impressionisti, appare come una figura piuttosto meschina. Come è avvenuto questo ribaltamento?
Non sono d'accordo. Il dottor Gachet non è poi così cattivo, visto che curava gratis tutti quegli artisti che poi lo pagavano con tele che, allora, non avevano nessun valore. Era un po' radical chic: amava tutto ciò che era avanguardia. Quello che non poteva immaginare era che sua figlia avesse una storia con Van Gogh. Lui ha fatto tutto quello che facevano i padri dell'epoca - che avevano il diritto di correzione, cioè di picchiare mogli, figli e servitù senza incorrere in nessun tipo di sanzione. È la figlia che fa cose che una ragazza di buona famiglia dell'epoca non avrebbe mai pensato di fare.
Il dottor Gachet in definitiva appare cattivo soprattutto agli occhi di Marguerite, perché tutto il romanzo è scritto dal suo punto di vista.
In principio Marguerite appare più che altro come la classica adolescente ribelle, poi cresce e diventa un personaggio più rotondo e si comprendono di più le sue ragioni. Del resto, s'innamora di Vincent proprio perché è Vincent, non perché pensa sia un grande pittore.
Non si può essere pittori accanto a Van Gogh: solo Gauguin lo era, e infatti non andavano molto d'accordo. Una cosa molto bella tra loro era però il sentimento di ammirazione reciproca che li animava. Ognuno pensava che l'altro fosse migliore, ma senza gelosia. Avevano del resto due stili molto diversi, e infatti i seguaci di Gauguin sono stati pochi, mentre Van Gogh ha aperto una via enorme dopo di lui.
Il romanzo si svolge a fine Ottocento, mentre oggi le cose sono molto cambiate. L'arte contemporanea è diversa, le cifre sono esorbitanti. Come sarebbe scrivere un romanzo su un artista contemporaneo?
Per scrivere un libro su Jeff Koons dovrebbe prima di tutto lui essere un artista...
Non sono sensibile all'arte contemporanea perché per me tutto ciò che non mi fa provare emozioni è qualcosa che non mi arriva.
Cosa resterà allora, secondo lei, dell'arte contemporanea?
C'è qualche grande artista, come Basquiat, ce ne sono anzi parecchi, ma l'arte ha sempre avuto un valore monetizzato e monetizzabile, infatti esistono i falsari ed esiste la speculazione.
Pensate a Vermeer, che ora è tra i grandi ma quand'era in vita le sue tele non avevano nessun valore.
In Francia certi pittori hanno avuto valore per un certo periodo, e magari oggi non ne hanno più, per cui non si può ridurre l'arte a un valore monetario.
La cosa importante è guardare un quadro per quello che è e per la gioia che ti fa provare.
Grazie di cuore a Salani e all'autore per questa splendida opportunità di confronto e di arricchimento: "Il valzer degli alberi e del cielo" è un romanzo splendido, davvero imperdibile per gli amanti dell'arte - e non.
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
mercoledì 26 aprile 2017
L'estate profuma di cocco, con Bilboa Coconut Beauty
Buon pomeriggio a tutte, fanciulle!
L'estate si avvicina, ma prima ancora di questa ci aspettano i primi fine settimana in campagna e al mare, e non vorrete mica viverli senza la giusta protezione solare!
Ci pensa, ancora una volta, Bilboa, e stavolta fa la felicità di chi, come me, ama il profumo del cocco, con la linea Bilboa Coconut Beauty:
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Non so voi, ma a me tutto questo parlare di cocco, sole e mare ha messo addosso una grandissima voglia di estate!
Un bacio a tutte, fanciulle!
A presto <3
L'estate si avvicina, ma prima ancora di questa ci aspettano i primi fine settimana in campagna e al mare, e non vorrete mica viverli senza la giusta protezione solare!
Ci pensa, ancora una volta, Bilboa, e stavolta fa la felicità di chi, come me, ama il profumo del cocco, con la linea Bilboa Coconut Beauty:
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Un bacio a tutte, fanciulle!
A presto <3
Anna sta scriv... mentendo: intervista a Federico Baccomo
Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Oggi ospito sul blog un autore che resta forse tra i più poliedrici sul panorama italiano: Federico Baccomo, che torna in libreria con "Anna sta mentendo", edito Giunti (rilegato a 17€):
Riccardo Merisio è tornato a sorridere. Un nuovo lavoro e una nuova ragazza hanno cancellato le ombre di un periodo difficile. Ma una sera, mentre sta chattando con Anna, la collega con cui ha da poco intrecciato una relazione, un insolito annuncio invade lo schermo del suo telefonino. Si tratta dell’invito a scaricare un’applicazione dal curioso nome di WhatsTrue. Anzi, più che un invito pare un obbligo, visto che ogni tentativo di impedirne il download si rivela inutile. Da questo momento iniziano ad accadere strane cose: sempre più spesso, i messaggi di Anna sono accompagnati da una scritta sinistra: «Anna sta mentendo...». Uno scherzo, una trovata pubblicitaria, o un sistema effettivamente in grado di svelare le bugie dell’interlocutore? Ogni giorno più turbato e diffidente, Riccardo finisce per cedere al fascino della misteriosa app che comincia a impossessarsi dei suoi pensieri e ad amplificare le sue paranoie, trascinandolo in un gioco psicologico di tensione crescente in cui cadono i confini tra verità e menzogna, tra realtà e fantasia.
Con grande intelligenza e lucidità, Federico Baccomo mette in scena il racconto sfrenato di un mondo inquietante e seducente in cui si riflettono le complessità della mente umana e dove ogni uomo è insieme impostore e ingannato.
Un romanzo eccitante e ipnotico, di eccezionale originalità.
Un romanzo dalla premessa intrigante, e Federico Baccomo per me è sempre una garanzia: in occasione di Tempo di Libri, siamo riusciti a improvvisare un'intervista davanti allo stand Giunti ed ecco cosa mi ha raccontato!
Nel tuo romanzo troviamo un'app di nome WhatsTrue - il riferimento a WhatsApp è chiaro - che forse servirebbe a tutti noi, che ci mette di fronte a quella che forse è una delle nostre più grandi paure di oggi: cosa c'è di vero e cosa c'è di falso dietro a ciò che leggiamo e condividiamo sul web.
Da dove è nata questa idea, e quali considerazioni ti senti di fare sulla rete e sulle sue bugie?
Tutto è nato da un'intuizione semplicissima, che mi ha colto nel momento in cui aspettavo una risposta a un mio messaggio e notavo il costante "sta scrivendo... sta scrivendo... sta scrivendo...", per poi ricevere un messaggio che era palesemente una bugia.
Ho pensato che se un'app potesse dire "sta mentendo" invece di "sta scrivendo", avremmo di fronte qualcosa di molto potente. Di sicuro era potente come spunto narrativo: non sapevo cosa sarebbe successo nel libro.
Mi è sembrato di toccare un tema molto attuale perchè oggi, come dici tu, la comunicazione massima è davvero un concentrato di bugie, da quelle potenzialmente pericolose - le bufale, le fake news - a quelle più innocenti, come il calcetto o la zia in visita usati per evitare un'uscita serale indesiderata.
Se qualcuno inventasse un modo per smascherarle tutte, credo che andrebbe a rotoli il mondo.
In fondo, se ci pensi, noi diamo sempre una connotazione negativa alla bugia, ma forse le persone più insopportabili sono quelle che ti dicono «ah, io dico sempre la verità!» perchè da loro arrivano brutte sorprese.
Mi piaceva l'idea di giocare su questo rapporto tra realtà e finzione, tra menzogna e verità, ed è nato questa sorta di thriller psicologico che mi sembra un labirinto sia per il protagonista che per il lettore.
Il tuo libro mi ha fatta riflettere molto, perchè mi sono detta: quante persone ho conosciuto attraverso i social network, e di quante di loro conosco per certo l'identità reale?
In fondo, quelle che non ho mai incontrato nella vita reale, potrebbero essere chiunque.
Se ci pensi, ci sono chat erotiche gestite da irreprensibili signore di cinquant'anni che fingono di essere ragazzine di ventitrè.
Soprattutto, questo schermo che ci divide dagli altri ci dà la possibilità di essere quello che non siamo, e lì si crea un'ambiguità di fondo che è difficile da spazzare via ma anche affascinante da analizzare. perchè in fondo la domanda è: tu sei quello che sei, o quello che vorresti far passare agli altri?
Se Alexandre Dumas ai suoi tempi poteva parlare di complotti, Napoleone o altro, noi abbiamo i social network e una nuova società di cui raccontare.
Questo "Anna sta mentendo... Anna sta mentendo..." diventa il canto della sirena per il lettore, perchè fin dalla sua prima apparizione ci si chiede chi sia davvero, perchè stia mentendo, cosa stia nascondendo.
Questo funziona perchè gli altri sono sempre un'incognita.
Ci sono coppie che stanno insieme da vent'anni, e dopo aver scoperto un piccolo segreto dell'altra persona iniziano a chiedersi «ma con chi sono stato fino ad adesso?» e rimettono in discussione tutto.
È bellissimo quello che dici tu del canto della sirena, perchè se ci pensi le sirene sono le menzognere per eccellenza, ma chi cercano di ingannare?
Il menzognero per eccellenza, Ulisse: un uomo che ha fatto della bugia e dell'inganno il suo marchio di fabbrica. Paradossalmente, lui ha inventato questo grande inganno che era il cavallo di Troia, ma per assurdo era talmente bugiardo da non averlo inventato veramente lui.
È stato un altro marinaio ad avere l'idea, e Ulisse se n'è appropriato.
È giusto che incontri, come suo più grande nemico, altre creature bugiarde.
Questo scontro costante tra bugiardi e menzogneri, nei romanzi come nella vita, ci fa capire che in fondo siamo tutti così: tutti auguriamo un buongiorno a qualcuno che odiamo, e tutti diciamo a qualcuno in difficoltà che andrà tutto bene anche se non lo sappiamo.
È solo quando ci troviamo di fronte a quel «sta mentendo» che siamo costretti a mettere tutto in discussione.
A volte con le persone che non sopportiamo siamo più gentili, addirittura.
Che è paradossale, ma è assolutamente vero.
Forse l'esagerazione ci aiuta a mascherare meglio i nostri reali pensieri.
Ci fu un ragazzo che fece l'esperimento di essere sincero al 100% su Facebook per un giorno.
Perse qualcosa come 300 amici, a causa delle sue crtiche e dei suoi commenti che, per quanto onesti, esprimevano una verità che nessuno voleva sentire sul serio.
A questo proposito, il tuo romanzo mi ha fatto pensare anche a un movimento che sta prendendo piede in America, chiamato Radical Candor, secondo il quale dovremmo essere sempre totalmente sinceri, con chiunque e riguardo a qualsiasi aspetto della vita.
Alcuni giornalisti lo stanno mettendo alla prova, e uno ha raccontato nel suo articolo che nel giro di un mese per poco non divorziava.
È proprio questo il punto. Se noi fossimo totalmente sinceri, rovineremmo tanti di quei rapporti...
La bugia non merita di essere considerata una cosa esclusivamente negativa, anzi.
Arrivando all'estremo, pensiamo ad Anna Frank: se i proprietari dell'appartamento segreto nel quale era nascosta l'avessero denunciata?
Sarebbe stato un atto di onestà totale, ma sarebbe anche stata un'azione corretta?
L'idea che la verità sia sempre positiva, che è un'idea cattolica ma anche illuminista, andrebbe rivista, e soprattutto bisognerebbe liberare la verità e la bugia da quell'accezione morale che cerca di renderle giuste o sbagliate in senso assoluto.
Quello che importa è invece indagare il motivo per il quale si mente: se lo si fa per tradire la propria moglie, è chiaro che si tratta di un atto egoista, ma se lo si fa per difendere valori più alti come quello della libertà e della dignità, allora la menzogna acquista tutto un altro senso.
Il tuo non è solo un romanzo: riesci a scrivere un'opera di narrativa dai toni e dalle atmosfere tipiche del thriller, in cui il protagonista da questo innocuo autodownload di un'app si trova coinvolto in una storia sconvolgente che mai avrebbe potuto immaginare.
Pensando ai tuoi lavori precedenti, come ad esempio "Studio illegale" o "Woody", è impossibile non chiederti come si fa a spaziare così tanto tra i generi e a padroneggiare così bene tecniche ed espedienti narrativi così diversi.
Si fa con fatica e con disciplina, soprattutto con curiosità.
Un libro mi impiega, in totale, tra l'anno e mezzo e i due anni, e ogni volta che giungo alla fine penso che probabilmente potrei scriverne un altro sulla stessa linea senza troppa difficoltà.
Avrei potuto scrivere un altro "Studio illegale", e quando ho finito "Woody" (romanzo splendidamente illustrato con protagonista e voce narrante un cane, ndr) avevo già in mente di scrivere un altro libro con protagonista un gatto.
La prospettiva di ripetermi, però, mi annoiava: scegliere atmosfere diverse, una scrittura diversa e personaggi differenti mi permetteva di svegliarmi e dirmi «dai, oggi torno al computer e mi impegno in questa nuova sfida!»
Serve disciplina, come dicevo, insieme alla curiosità, e soprattutto non deve mancare la voglia di divertirsi, che è quella che deve avere anche un lettore quando sceglie letture diverse.
Io leggo volentieri romanzi di fantascienza, ma anche quelli più emotivi, per poi passare all'horror di Stephen King e ai lavori di Elsa Morante, che è una scrittrice che amo e nessuno potrebbe mai dirlo, leggendo i miei romanzi.
Cosa speri che trasmetta il tuo romanzo ai lettori?
Mi piacerebbe, innanzitutto, che un lettore si divertisse leggendolo.
Poi vorrei che, una volta arrivato all'ultima pagina, guardasse il mondo da una prospettiva leggermente diversa, cominciando a chiedersi più spesso cosa siano la verità e la menzogna e a interrogarsi sulle persone che ha di fronte, sempre dal punto di vista dell'empatia che spero si sviluppi con il personaggio del romanzo.
Questo perchè conoscere vite diverse porta a comprenderle, e conoscere rende molto più difficile odiare. Puoi giudicare, però conoscere anche il peggiore criminale rende possibile capirlo. Non giustificarlo e anzi, continuare a condannarlo, ma capirlo.
Un libro offre sempre questa possibilità: stando a casa, puoi vivere anche un'avventura che mai nella vita ti capiterebbe e che invece ti fa sentire, una volta conclusa, arricchito.
Come quando torni da un lungo viaggio.
Ringrazio moltissimo Giunti e Federico Baccomo per la possibilità di leggere "Anna sta mentendo" e di parlarne per voi con l'autore: "Anna sta mentendo" è consigliatissimo, anche se poi probabilmente guarderete con sospetto ogni "sta scrivendo..." per almeno una settimana XD
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
Oggi ospito sul blog un autore che resta forse tra i più poliedrici sul panorama italiano: Federico Baccomo, che torna in libreria con "Anna sta mentendo", edito Giunti (rilegato a 17€):
Riccardo Merisio è tornato a sorridere. Un nuovo lavoro e una nuova ragazza hanno cancellato le ombre di un periodo difficile. Ma una sera, mentre sta chattando con Anna, la collega con cui ha da poco intrecciato una relazione, un insolito annuncio invade lo schermo del suo telefonino. Si tratta dell’invito a scaricare un’applicazione dal curioso nome di WhatsTrue. Anzi, più che un invito pare un obbligo, visto che ogni tentativo di impedirne il download si rivela inutile. Da questo momento iniziano ad accadere strane cose: sempre più spesso, i messaggi di Anna sono accompagnati da una scritta sinistra: «Anna sta mentendo...». Uno scherzo, una trovata pubblicitaria, o un sistema effettivamente in grado di svelare le bugie dell’interlocutore? Ogni giorno più turbato e diffidente, Riccardo finisce per cedere al fascino della misteriosa app che comincia a impossessarsi dei suoi pensieri e ad amplificare le sue paranoie, trascinandolo in un gioco psicologico di tensione crescente in cui cadono i confini tra verità e menzogna, tra realtà e fantasia.
Con grande intelligenza e lucidità, Federico Baccomo mette in scena il racconto sfrenato di un mondo inquietante e seducente in cui si riflettono le complessità della mente umana e dove ogni uomo è insieme impostore e ingannato.
Un romanzo eccitante e ipnotico, di eccezionale originalità.
Un romanzo dalla premessa intrigante, e Federico Baccomo per me è sempre una garanzia: in occasione di Tempo di Libri, siamo riusciti a improvvisare un'intervista davanti allo stand Giunti ed ecco cosa mi ha raccontato!
Nel tuo romanzo troviamo un'app di nome WhatsTrue - il riferimento a WhatsApp è chiaro - che forse servirebbe a tutti noi, che ci mette di fronte a quella che forse è una delle nostre più grandi paure di oggi: cosa c'è di vero e cosa c'è di falso dietro a ciò che leggiamo e condividiamo sul web.
Da dove è nata questa idea, e quali considerazioni ti senti di fare sulla rete e sulle sue bugie?
Tutto è nato da un'intuizione semplicissima, che mi ha colto nel momento in cui aspettavo una risposta a un mio messaggio e notavo il costante "sta scrivendo... sta scrivendo... sta scrivendo...", per poi ricevere un messaggio che era palesemente una bugia.
Ho pensato che se un'app potesse dire "sta mentendo" invece di "sta scrivendo", avremmo di fronte qualcosa di molto potente. Di sicuro era potente come spunto narrativo: non sapevo cosa sarebbe successo nel libro.
Mi è sembrato di toccare un tema molto attuale perchè oggi, come dici tu, la comunicazione massima è davvero un concentrato di bugie, da quelle potenzialmente pericolose - le bufale, le fake news - a quelle più innocenti, come il calcetto o la zia in visita usati per evitare un'uscita serale indesiderata.
Se qualcuno inventasse un modo per smascherarle tutte, credo che andrebbe a rotoli il mondo.
In fondo, se ci pensi, noi diamo sempre una connotazione negativa alla bugia, ma forse le persone più insopportabili sono quelle che ti dicono «ah, io dico sempre la verità!» perchè da loro arrivano brutte sorprese.
Mi piaceva l'idea di giocare su questo rapporto tra realtà e finzione, tra menzogna e verità, ed è nato questa sorta di thriller psicologico che mi sembra un labirinto sia per il protagonista che per il lettore.
Il tuo libro mi ha fatta riflettere molto, perchè mi sono detta: quante persone ho conosciuto attraverso i social network, e di quante di loro conosco per certo l'identità reale?
In fondo, quelle che non ho mai incontrato nella vita reale, potrebbero essere chiunque.
Se ci pensi, ci sono chat erotiche gestite da irreprensibili signore di cinquant'anni che fingono di essere ragazzine di ventitrè.
Soprattutto, questo schermo che ci divide dagli altri ci dà la possibilità di essere quello che non siamo, e lì si crea un'ambiguità di fondo che è difficile da spazzare via ma anche affascinante da analizzare. perchè in fondo la domanda è: tu sei quello che sei, o quello che vorresti far passare agli altri?
Se Alexandre Dumas ai suoi tempi poteva parlare di complotti, Napoleone o altro, noi abbiamo i social network e una nuova società di cui raccontare.
Questo "Anna sta mentendo... Anna sta mentendo..." diventa il canto della sirena per il lettore, perchè fin dalla sua prima apparizione ci si chiede chi sia davvero, perchè stia mentendo, cosa stia nascondendo.
Questo funziona perchè gli altri sono sempre un'incognita.
Ci sono coppie che stanno insieme da vent'anni, e dopo aver scoperto un piccolo segreto dell'altra persona iniziano a chiedersi «ma con chi sono stato fino ad adesso?» e rimettono in discussione tutto.
È bellissimo quello che dici tu del canto della sirena, perchè se ci pensi le sirene sono le menzognere per eccellenza, ma chi cercano di ingannare?
Il menzognero per eccellenza, Ulisse: un uomo che ha fatto della bugia e dell'inganno il suo marchio di fabbrica. Paradossalmente, lui ha inventato questo grande inganno che era il cavallo di Troia, ma per assurdo era talmente bugiardo da non averlo inventato veramente lui.
È stato un altro marinaio ad avere l'idea, e Ulisse se n'è appropriato.
È giusto che incontri, come suo più grande nemico, altre creature bugiarde.
Questo scontro costante tra bugiardi e menzogneri, nei romanzi come nella vita, ci fa capire che in fondo siamo tutti così: tutti auguriamo un buongiorno a qualcuno che odiamo, e tutti diciamo a qualcuno in difficoltà che andrà tutto bene anche se non lo sappiamo.
È solo quando ci troviamo di fronte a quel «sta mentendo» che siamo costretti a mettere tutto in discussione.
A volte con le persone che non sopportiamo siamo più gentili, addirittura.
Che è paradossale, ma è assolutamente vero.
Forse l'esagerazione ci aiuta a mascherare meglio i nostri reali pensieri.
Ci fu un ragazzo che fece l'esperimento di essere sincero al 100% su Facebook per un giorno.
Perse qualcosa come 300 amici, a causa delle sue crtiche e dei suoi commenti che, per quanto onesti, esprimevano una verità che nessuno voleva sentire sul serio.
A questo proposito, il tuo romanzo mi ha fatto pensare anche a un movimento che sta prendendo piede in America, chiamato Radical Candor, secondo il quale dovremmo essere sempre totalmente sinceri, con chiunque e riguardo a qualsiasi aspetto della vita.
Alcuni giornalisti lo stanno mettendo alla prova, e uno ha raccontato nel suo articolo che nel giro di un mese per poco non divorziava.
È proprio questo il punto. Se noi fossimo totalmente sinceri, rovineremmo tanti di quei rapporti...
La bugia non merita di essere considerata una cosa esclusivamente negativa, anzi.
Arrivando all'estremo, pensiamo ad Anna Frank: se i proprietari dell'appartamento segreto nel quale era nascosta l'avessero denunciata?
Sarebbe stato un atto di onestà totale, ma sarebbe anche stata un'azione corretta?
L'idea che la verità sia sempre positiva, che è un'idea cattolica ma anche illuminista, andrebbe rivista, e soprattutto bisognerebbe liberare la verità e la bugia da quell'accezione morale che cerca di renderle giuste o sbagliate in senso assoluto.
Quello che importa è invece indagare il motivo per il quale si mente: se lo si fa per tradire la propria moglie, è chiaro che si tratta di un atto egoista, ma se lo si fa per difendere valori più alti come quello della libertà e della dignità, allora la menzogna acquista tutto un altro senso.
Il tuo non è solo un romanzo: riesci a scrivere un'opera di narrativa dai toni e dalle atmosfere tipiche del thriller, in cui il protagonista da questo innocuo autodownload di un'app si trova coinvolto in una storia sconvolgente che mai avrebbe potuto immaginare.
Pensando ai tuoi lavori precedenti, come ad esempio "Studio illegale" o "Woody", è impossibile non chiederti come si fa a spaziare così tanto tra i generi e a padroneggiare così bene tecniche ed espedienti narrativi così diversi.
Si fa con fatica e con disciplina, soprattutto con curiosità.
Un libro mi impiega, in totale, tra l'anno e mezzo e i due anni, e ogni volta che giungo alla fine penso che probabilmente potrei scriverne un altro sulla stessa linea senza troppa difficoltà.
Avrei potuto scrivere un altro "Studio illegale", e quando ho finito "Woody" (romanzo splendidamente illustrato con protagonista e voce narrante un cane, ndr) avevo già in mente di scrivere un altro libro con protagonista un gatto.
La prospettiva di ripetermi, però, mi annoiava: scegliere atmosfere diverse, una scrittura diversa e personaggi differenti mi permetteva di svegliarmi e dirmi «dai, oggi torno al computer e mi impegno in questa nuova sfida!»
Serve disciplina, come dicevo, insieme alla curiosità, e soprattutto non deve mancare la voglia di divertirsi, che è quella che deve avere anche un lettore quando sceglie letture diverse.
Io leggo volentieri romanzi di fantascienza, ma anche quelli più emotivi, per poi passare all'horror di Stephen King e ai lavori di Elsa Morante, che è una scrittrice che amo e nessuno potrebbe mai dirlo, leggendo i miei romanzi.
Cosa speri che trasmetta il tuo romanzo ai lettori?
Mi piacerebbe, innanzitutto, che un lettore si divertisse leggendolo.
Poi vorrei che, una volta arrivato all'ultima pagina, guardasse il mondo da una prospettiva leggermente diversa, cominciando a chiedersi più spesso cosa siano la verità e la menzogna e a interrogarsi sulle persone che ha di fronte, sempre dal punto di vista dell'empatia che spero si sviluppi con il personaggio del romanzo.
Questo perchè conoscere vite diverse porta a comprenderle, e conoscere rende molto più difficile odiare. Puoi giudicare, però conoscere anche il peggiore criminale rende possibile capirlo. Non giustificarlo e anzi, continuare a condannarlo, ma capirlo.
Un libro offre sempre questa possibilità: stando a casa, puoi vivere anche un'avventura che mai nella vita ti capiterebbe e che invece ti fa sentire, una volta conclusa, arricchito.
Come quando torni da un lungo viaggio.
Ringrazio moltissimo Giunti e Federico Baccomo per la possibilità di leggere "Anna sta mentendo" e di parlarne per voi con l'autore: "Anna sta mentendo" è consigliatissimo, anche se poi probabilmente guarderete con sospetto ogni "sta scrivendo..." per almeno una settimana XD
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
lunedì 24 aprile 2017
Quando il passato diventa un'ossessione: intervista a Teresa Ciabatti
Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Iniziamo la settimana in compagnia di un'ospieta speciale: Teresa Ciabatti, autrice di "La più amata", edito Mondadori (brossurato a 18€)!
«Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quattro anni, e sono la figlia, la gioia, l'orgoglio, l'amore del Professore.» Il Professore - un inchino in segno di gratitudine e rispetto - è Lorenzo Ciabatti, primario dell'ospedale di Orbetello. Lo è diventato presto, dopo un tirocinio in America, rinunciando a incarichi più prestigiosi, perché è pieno di talento ma modesto, un benefattore, qualcuno dice, un santo. Tutti lo amano, tutti lo temono, e Teresa è la sua figlia adorata. È lei la bambina speciale che fa il bagno nella smisurata piscina della villa al Pozzarello, che costruisce un castello d'oro per le sue Barbie coi 23 lingotti trovati in uno dei cassetti del padre. Teresa: l'unica a cui il Professore consente di indossare l'anello con lo zaffiro da cui non si separa mai. L'anello dell'Università Americana, dice lui. L'anello del potere, bisbigliano alcuni - medici, infermieri e gente del paese: il Professore è un uomo potente. Teresa che dall'infanzia scivola nell'adolescenza, e si rende conto che la benevolenza che il mondo le riserva è un effetto collaterale del servilismo nei confronti del padre. La bambina bella e coccolata è diventata una ragazzina fiera e arrogante, indisponente e disarmante. Ingrassa, piange, è irascibile, manipolatrice, è totalmente impreparata alla vita. Chi è Lorenzo Ciabatti? Il medico benefattore che ama i poveri o un uomo calcolatore, violento? Un potente che forse ha avuto un ruolo in alcuni degli eventi più bui della storia recente? Ormai adulta, Teresa decide di scoprirlo, e si ritrova immersa nel liquido amniotico dolce e velenoso che la sua infanzia è stata: domande mai fatte, risposte evasive. Tutto, nei racconti famigliari, è riadattato, trasformato. E questa stessa contrarietà della verità a mostrare un solo volto Teresa la ritrova quando si mette a scrivere, ossessivamente prova a capire, ad aggrapparsi a un bandolo e risalire alle risposte. Esagerazione, mitomania, oppure semplici constatazioni? Con una scrittura densa, nervosa, lacerante, che affonda nella materia incandescente del vissuto e la restituisce con autenticità illuminandone gli aspetti più ambigui, Teresa Ciabatti ricostruisce la storia di una famiglia e, con essa, le vicende di un'intera epoca. Un'autofiction sincera, feroce, perturbante, che nasce dall'urgenza di fare i conti con un'infanzia felice bruscamente interrotta.
Subito prima dell'annuncio dei dodici autori in lizza per il premio Strega, abbiamo potuto incontrare l'autrice allo spazio Punto & Zeta, e dopo la nostra chiacchierata era impossibile non fare il tifo per lei ed essere contenti della sua conferma tra i dodici!
Ecco cosa ci ha raccontato:
Com'è scrivere un libro come questo, che ci porta dritti dritti alla tua infanzia, a quarantaquattro anni? Com'è stato per te voltarti indietro e ripercorrere così nel dettaglio un periodo complesso come quello dell'infanzia? Quanto ti tocca e quanto ti cambia un processo simile?
Innanzitutto ci tengo a dire che io parto e finisco come una donna incompiuta, perché non c'è stata una crescita nel libro: pensa che io mi toglievo gli anni perché mi vergognavo di quella che ero! Modificavo la mia data di nascita, e persino su Wikipedia era sbagliata (a mio favore), ma alla fine ho dovuto dirla perché la editor mi ha avvertito che c'era una grande confusione di date.
Ho scritto diverse versioni in cui l'Italia andava avanti e io avevo sempre sei anni...
Alla fine ho dovuto dichiarare la mia vera età, che è stata la mia prima presa di responsabilità nei confronti di quella che sono.
Ma quella che sono ha una grande parte legata all'infanzia, con un'enfasi eccessiva su certi aspetti.
La letteratura femminile è legata alla saggezza, e spesso le donne sono in grado di fornire molte risposte, mentre io proprio non ne ho. In questo sono una voce femminile atipica.
È un libro pieno di domande, ma senza risposte.
Non ho la saggezza da donna e da madre, e la voce del libro mi corrisponde pienamente.
È difficile tornare indietro, assolutamente, ma questa è sempre stata la mia ossessione.
Continuavo a percepirmi come appartenente alla mia famiglia d'origine – i genitori, il fratello – anziché alla mia famiglia attuale – marito e figlia. Sono davvero ossessionata dal passato.
Speri di riuscire, un giorno, a rispondere alle domande che hai posto nel romanzo?
No, non ci spero. Ci sono domande che ci si porta dietro per tutta la vita.
Ho cominciato cercando di capire chi è stato mio padre, e questa è diventata la mia ossessione nella vita. Il mio presente sembrava legato a quelle risposte, e di sicuro scrivendo il libro mi sono liberata. A un certo punto la risposta su mio padre non m'interessava più, perché la domanda era diventata "chi è Teresa Ciabatti?" e la risposta alla fine arriva: è nessuno, una donna qualunque, senza nessun privilegio.
La bambina ricca di Orbetello, con tutti i suoi privilegi, come la bambola che faceva la cacca e avevo solo io, è una che il lettore odia, perché è veramente fastidiosa.
In quel mondo non c'erano la morte, la fine, la perdita.
Mi sono confrontata molto tardi con la morte e ci sono arrivata del tutto impreparata: prima non mi era morto nemmeno un criceto! Il lettore è quasi felice quando quella bambina odiosa perde il suo regno.
Nella realtà io sono una donna comune.
Perché si deve rinunciare a vivere attaccati al passato?
Più che altro, se hai dei figli è necessario. In questo ho fatto dei grandi passi avanti.
Quando mia figlia andava all'asilo era la tata a occuparsi di tutto: nessuno mi conosceva.
Ora la seguo molto di più.
Ho voluto tantissimo questa bambina e me l'ero immaginata in un mondo rosa, quasi una proiezione di quello che ero stata io. Le avevo preparato una magnifica casa delle bambole che lei non ha mai neanche sfiorato, perché mia figlia è dark, completamente diversa da come la immaginavo.
La maternità per me è iniziata quando ho preso coscienza che questo essere umano non ero io, e nemmeno la mia bambina ideale. In un'intervista ho detto che io e mia figlia stavamo facendo conoscenza e che ci stavamo simpatiche, ma sono stata attaccata pesantemente perché la cosa è stata giudicata molto riduttiva. per me invece era un andare oltre il semplice "ti amo perchè sei mia figlia" e arrivare al "ti amo perchè mi piaci come individuo".
Parlavo di "fare conoscenza" perchè anche la conoscenza dei figli si modifica nel tempo, soprattutto perché loro cambiano davvero in fretta e molte, molte volte.
Mia figlia, per esempio, adesso va col monopattino per casa e me la distrugge, eppure la cosa non mi dispiace: mi fa troppo ridere!
La tua sincerità è rinfrescante, ma a giudicare da quanto si legge in rete e sui giornali sembra che tu stia pagando un prezzo alto per la tua onestà.
Non avendo una verità in più degli altri, posso solo essere molto sincera, a partire da me stessa e senza puntare un dito accusatore.
La famiglia che racconto può essere riparo, minaccia e/o pericolo, perché ogni giorno può assumere una forma diversa. Mi piaceva riuscire a ricreare con la scrittura questo cambiamento continuo.
Alla fine tu non saprai mai chi saranno stati i tuoi genitori e cosa sarà stata la tua famiglia.
Mio padre, un uomo pieno di ombre e che ha fatto cose che non condivido, ha creato un mondo di cui io comunque facevo parte. Vengo da lì. Quello che tento di fare, non avendo una saggezza o una visione superiore, è dare una visione diretta e sincera.
È una scelta precisa, l'unica che posso fare come scrittrice, anche perché se mi metto di fianco a Dacia Maraini faccio ridere!
Non sono eroica, perché ho scritto il libro dopo la morte dei miei genitori.
Fossero ancora vivi, mi avrebbero denunciato.
"La più amata", in fondo, è un finto memoir perché c'è una scelta e una manipolazione narrativa del senso degli accadimenti: c'è molto, in termini di invenzione e narrazione.
Nella mia ricerca sulla verità su mio padre, a un certo punto ho capito che non ero più interessata, ma che mi bastava capire meglio il suo comportamento nell'ambito familiare, sopratuttto nei confronti di mia madre, che alla fine risulta anche più inquietante.
Nessuno allora aveva percepito come violenza il fatto che mio padre avesse obbligato mia madre a sottoporsi alla cura del sonno per un periodo lunghissimo, sottraendole una fetta di vita.
Oggi io posso dire che è stata una violenza enorme.
Il lettore forse si aspetta che il personaggio si comporti in questo modo, e non resta sorpreso.
Da mio padre ho avuto il dono di un'infanzia meravigliosa.
L'ho amato molto e non posso dire che fosse un mostro.
Però quella bambina che considerava tutto, anche le persone, come suoi giocattoli, in realtà emulava il padre, facendo lo stesso esercizio di potere. Se lui è un mostro, lo sono anch'io.
Mi ricollego a quanto hai detto in un'intervista, in cui ti sei definita "cattiva".
Questa cattiveria com'è stata sviluppata nel romanzo?
Quella della cattiva è una maschera che indosso, ma in qualche modo mi spaventano più le persone che esibiscono la bontà, e poi di colpo non si rendono conto delle proprie mancanze o cattiverie. Preferisco una dichiarazione di odio liberatoria, che poi invece possa essere seguita da gesti di sensibilità. È il racconto di se stessi che mi spaventa.
Raccontarsi buoni è pericolosissimo.
Poi c'è chi si racconta cattivo, ma invece ti sorprende.
Nel libro il mio sguardo su di me e sulla famiglia non è affatto indulgente, però quella per me non è cattiveria.
Questo libro è stato molto apprezzato ma anche molto criticato, spesso anche in toni non troppo pertinenti. Fresca di candidatura allo Strega (che non viene vinto da una donna dal 2003, quando vinse Melania Gaia Mazzucco con "Vita", ndr), come rispondi alle critiche?
Dicendo che vengo da diciassette anni di scrittura, in cui non esistevo.
I miei libri precedenti non se li è letti nessuno, e il mio primo romanzo era addirittura stato definito "il più brutto romanzo dell'anno".
Di sicuro non sono mai stata una privilegiata ma, anzi, una ampiamente criticata e soprattutto ignorata.
Questo libro è il risultato di un percorso: non credo di essere stata ignorata per ingiustizia, prima, ma perché semplicemente non scrivevo abbastanza bene.
Sono stata bombardata di insulti su Facebook e ho chiuso temporaneamnte il profilo, ma dopo aver scritto il libro più brutto dell'anno posso reggere qualsiasi critica!
Comunque ogni anno sorgono polemiche intorno alle candidature ai vari premi letterari...
La candidatura allo Strega ha generato malumore.
Sono consapevole del fatto che alla mia generazione appartengano tante scrittrici che meriterebbero di essere al mio posto, però le critiche non sono venute da loro (con cui tra l'altro sono in ottimi rapporti), ma da altre persone.
Del resto, ci tengo a dire che sì, sono onoratissima di essere stata scelta, ma vincere un premio come lo Strega non è che ti cambi la vita.
Ringrazio moltissimo Mondadori e l'autrice per la disponibilità e la bellissima opportunità di confronto.
"La più amata" è un romanzo-memoir intenso, appassionato e, soprattutto, appassionante: inseritelo nei vostri #StregaThon, nelle vostre letture del ponte del primo Maggio, nella pila sul comodino.
Vi piacerà!
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
Iniziamo la settimana in compagnia di un'ospieta speciale: Teresa Ciabatti, autrice di "La più amata", edito Mondadori (brossurato a 18€)!
«Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quattro anni, e sono la figlia, la gioia, l'orgoglio, l'amore del Professore.» Il Professore - un inchino in segno di gratitudine e rispetto - è Lorenzo Ciabatti, primario dell'ospedale di Orbetello. Lo è diventato presto, dopo un tirocinio in America, rinunciando a incarichi più prestigiosi, perché è pieno di talento ma modesto, un benefattore, qualcuno dice, un santo. Tutti lo amano, tutti lo temono, e Teresa è la sua figlia adorata. È lei la bambina speciale che fa il bagno nella smisurata piscina della villa al Pozzarello, che costruisce un castello d'oro per le sue Barbie coi 23 lingotti trovati in uno dei cassetti del padre. Teresa: l'unica a cui il Professore consente di indossare l'anello con lo zaffiro da cui non si separa mai. L'anello dell'Università Americana, dice lui. L'anello del potere, bisbigliano alcuni - medici, infermieri e gente del paese: il Professore è un uomo potente. Teresa che dall'infanzia scivola nell'adolescenza, e si rende conto che la benevolenza che il mondo le riserva è un effetto collaterale del servilismo nei confronti del padre. La bambina bella e coccolata è diventata una ragazzina fiera e arrogante, indisponente e disarmante. Ingrassa, piange, è irascibile, manipolatrice, è totalmente impreparata alla vita. Chi è Lorenzo Ciabatti? Il medico benefattore che ama i poveri o un uomo calcolatore, violento? Un potente che forse ha avuto un ruolo in alcuni degli eventi più bui della storia recente? Ormai adulta, Teresa decide di scoprirlo, e si ritrova immersa nel liquido amniotico dolce e velenoso che la sua infanzia è stata: domande mai fatte, risposte evasive. Tutto, nei racconti famigliari, è riadattato, trasformato. E questa stessa contrarietà della verità a mostrare un solo volto Teresa la ritrova quando si mette a scrivere, ossessivamente prova a capire, ad aggrapparsi a un bandolo e risalire alle risposte. Esagerazione, mitomania, oppure semplici constatazioni? Con una scrittura densa, nervosa, lacerante, che affonda nella materia incandescente del vissuto e la restituisce con autenticità illuminandone gli aspetti più ambigui, Teresa Ciabatti ricostruisce la storia di una famiglia e, con essa, le vicende di un'intera epoca. Un'autofiction sincera, feroce, perturbante, che nasce dall'urgenza di fare i conti con un'infanzia felice bruscamente interrotta.
Subito prima dell'annuncio dei dodici autori in lizza per il premio Strega, abbiamo potuto incontrare l'autrice allo spazio Punto & Zeta, e dopo la nostra chiacchierata era impossibile non fare il tifo per lei ed essere contenti della sua conferma tra i dodici!
Ecco cosa ci ha raccontato:
Com'è scrivere un libro come questo, che ci porta dritti dritti alla tua infanzia, a quarantaquattro anni? Com'è stato per te voltarti indietro e ripercorrere così nel dettaglio un periodo complesso come quello dell'infanzia? Quanto ti tocca e quanto ti cambia un processo simile?
Innanzitutto ci tengo a dire che io parto e finisco come una donna incompiuta, perché non c'è stata una crescita nel libro: pensa che io mi toglievo gli anni perché mi vergognavo di quella che ero! Modificavo la mia data di nascita, e persino su Wikipedia era sbagliata (a mio favore), ma alla fine ho dovuto dirla perché la editor mi ha avvertito che c'era una grande confusione di date.
Ho scritto diverse versioni in cui l'Italia andava avanti e io avevo sempre sei anni...
Alla fine ho dovuto dichiarare la mia vera età, che è stata la mia prima presa di responsabilità nei confronti di quella che sono.
Ma quella che sono ha una grande parte legata all'infanzia, con un'enfasi eccessiva su certi aspetti.
La letteratura femminile è legata alla saggezza, e spesso le donne sono in grado di fornire molte risposte, mentre io proprio non ne ho. In questo sono una voce femminile atipica.
È un libro pieno di domande, ma senza risposte.
Non ho la saggezza da donna e da madre, e la voce del libro mi corrisponde pienamente.
È difficile tornare indietro, assolutamente, ma questa è sempre stata la mia ossessione.
Continuavo a percepirmi come appartenente alla mia famiglia d'origine – i genitori, il fratello – anziché alla mia famiglia attuale – marito e figlia. Sono davvero ossessionata dal passato.
No, non ci spero. Ci sono domande che ci si porta dietro per tutta la vita.
Ho cominciato cercando di capire chi è stato mio padre, e questa è diventata la mia ossessione nella vita. Il mio presente sembrava legato a quelle risposte, e di sicuro scrivendo il libro mi sono liberata. A un certo punto la risposta su mio padre non m'interessava più, perché la domanda era diventata "chi è Teresa Ciabatti?" e la risposta alla fine arriva: è nessuno, una donna qualunque, senza nessun privilegio.
La bambina ricca di Orbetello, con tutti i suoi privilegi, come la bambola che faceva la cacca e avevo solo io, è una che il lettore odia, perché è veramente fastidiosa.
In quel mondo non c'erano la morte, la fine, la perdita.
Mi sono confrontata molto tardi con la morte e ci sono arrivata del tutto impreparata: prima non mi era morto nemmeno un criceto! Il lettore è quasi felice quando quella bambina odiosa perde il suo regno.
Nella realtà io sono una donna comune.
Perché si deve rinunciare a vivere attaccati al passato?
Più che altro, se hai dei figli è necessario. In questo ho fatto dei grandi passi avanti.
Quando mia figlia andava all'asilo era la tata a occuparsi di tutto: nessuno mi conosceva.
Ora la seguo molto di più.
Ho voluto tantissimo questa bambina e me l'ero immaginata in un mondo rosa, quasi una proiezione di quello che ero stata io. Le avevo preparato una magnifica casa delle bambole che lei non ha mai neanche sfiorato, perché mia figlia è dark, completamente diversa da come la immaginavo.
La maternità per me è iniziata quando ho preso coscienza che questo essere umano non ero io, e nemmeno la mia bambina ideale. In un'intervista ho detto che io e mia figlia stavamo facendo conoscenza e che ci stavamo simpatiche, ma sono stata attaccata pesantemente perché la cosa è stata giudicata molto riduttiva. per me invece era un andare oltre il semplice "ti amo perchè sei mia figlia" e arrivare al "ti amo perchè mi piaci come individuo".
Parlavo di "fare conoscenza" perchè anche la conoscenza dei figli si modifica nel tempo, soprattutto perché loro cambiano davvero in fretta e molte, molte volte.
Mia figlia, per esempio, adesso va col monopattino per casa e me la distrugge, eppure la cosa non mi dispiace: mi fa troppo ridere!
La tua sincerità è rinfrescante, ma a giudicare da quanto si legge in rete e sui giornali sembra che tu stia pagando un prezzo alto per la tua onestà.
Non avendo una verità in più degli altri, posso solo essere molto sincera, a partire da me stessa e senza puntare un dito accusatore.
La famiglia che racconto può essere riparo, minaccia e/o pericolo, perché ogni giorno può assumere una forma diversa. Mi piaceva riuscire a ricreare con la scrittura questo cambiamento continuo.
Alla fine tu non saprai mai chi saranno stati i tuoi genitori e cosa sarà stata la tua famiglia.
Mio padre, un uomo pieno di ombre e che ha fatto cose che non condivido, ha creato un mondo di cui io comunque facevo parte. Vengo da lì. Quello che tento di fare, non avendo una saggezza o una visione superiore, è dare una visione diretta e sincera.
È una scelta precisa, l'unica che posso fare come scrittrice, anche perché se mi metto di fianco a Dacia Maraini faccio ridere!
Non sono eroica, perché ho scritto il libro dopo la morte dei miei genitori.
Fossero ancora vivi, mi avrebbero denunciato.
"La più amata", in fondo, è un finto memoir perché c'è una scelta e una manipolazione narrativa del senso degli accadimenti: c'è molto, in termini di invenzione e narrazione.
Nella mia ricerca sulla verità su mio padre, a un certo punto ho capito che non ero più interessata, ma che mi bastava capire meglio il suo comportamento nell'ambito familiare, sopratuttto nei confronti di mia madre, che alla fine risulta anche più inquietante.
Nessuno allora aveva percepito come violenza il fatto che mio padre avesse obbligato mia madre a sottoporsi alla cura del sonno per un periodo lunghissimo, sottraendole una fetta di vita.
Oggi io posso dire che è stata una violenza enorme.
Il lettore forse si aspetta che il personaggio si comporti in questo modo, e non resta sorpreso.
Da mio padre ho avuto il dono di un'infanzia meravigliosa.
L'ho amato molto e non posso dire che fosse un mostro.
Però quella bambina che considerava tutto, anche le persone, come suoi giocattoli, in realtà emulava il padre, facendo lo stesso esercizio di potere. Se lui è un mostro, lo sono anch'io.
Mi ricollego a quanto hai detto in un'intervista, in cui ti sei definita "cattiva".
Questa cattiveria com'è stata sviluppata nel romanzo?
Quella della cattiva è una maschera che indosso, ma in qualche modo mi spaventano più le persone che esibiscono la bontà, e poi di colpo non si rendono conto delle proprie mancanze o cattiverie. Preferisco una dichiarazione di odio liberatoria, che poi invece possa essere seguita da gesti di sensibilità. È il racconto di se stessi che mi spaventa.
Raccontarsi buoni è pericolosissimo.
Poi c'è chi si racconta cattivo, ma invece ti sorprende.
Nel libro il mio sguardo su di me e sulla famiglia non è affatto indulgente, però quella per me non è cattiveria.
Questo libro è stato molto apprezzato ma anche molto criticato, spesso anche in toni non troppo pertinenti. Fresca di candidatura allo Strega (che non viene vinto da una donna dal 2003, quando vinse Melania Gaia Mazzucco con "Vita", ndr), come rispondi alle critiche?
Dicendo che vengo da diciassette anni di scrittura, in cui non esistevo.
I miei libri precedenti non se li è letti nessuno, e il mio primo romanzo era addirittura stato definito "il più brutto romanzo dell'anno".
Di sicuro non sono mai stata una privilegiata ma, anzi, una ampiamente criticata e soprattutto ignorata.
Questo libro è il risultato di un percorso: non credo di essere stata ignorata per ingiustizia, prima, ma perché semplicemente non scrivevo abbastanza bene.
Sono stata bombardata di insulti su Facebook e ho chiuso temporaneamnte il profilo, ma dopo aver scritto il libro più brutto dell'anno posso reggere qualsiasi critica!
Comunque ogni anno sorgono polemiche intorno alle candidature ai vari premi letterari...
La candidatura allo Strega ha generato malumore.
Sono consapevole del fatto che alla mia generazione appartengano tante scrittrici che meriterebbero di essere al mio posto, però le critiche non sono venute da loro (con cui tra l'altro sono in ottimi rapporti), ma da altre persone.
Del resto, ci tengo a dire che sì, sono onoratissima di essere stata scelta, ma vincere un premio come lo Strega non è che ti cambi la vita.
Ringrazio moltissimo Mondadori e l'autrice per la disponibilità e la bellissima opportunità di confronto.
"La più amata" è un romanzo-memoir intenso, appassionato e, soprattutto, appassionante: inseritelo nei vostri #StregaThon, nelle vostre letture del ponte del primo Maggio, nella pila sul comodino.
Vi piacerà!
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
sabato 22 aprile 2017
Curare, e curarsi, con i libri: intervista a Michaël Uras
Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Oggi il blog ha un ospite molto speciale, che in Italia abbiamo potuto conoscere proprio questo mese grazie al suo "Le parole degli altri", edito Nord (rilegato a 16,90€): Michaël Uras!
Per tutti arriva il momento di scegliere cosa fare nella vita. Ed è arrivato anche per Alex. Lui, però, ha avuto un’idea geniale: perché non mettere a frutto la sua smisurata passione per i libri e il suo intuito nel saper leggere il cuore delle persone? Così si è inventato un mestiere: il biblioterapeuta. Invece di medicine, Alex dispensa ai suoi pazienti precisi consigli di lettura e li accompagna nella scoperta del potere salvifico delle parole: Aspettando Godot per chi ha troppo da fare, Il giovane Holden per chi ha paura di ribellarsi, l'Odissea per ritrovare il proprio posto nel mondo... E, grazie a quei consigli, le persone stanno meglio: sta meglio Yann, il ragazzo innamorato che non riesce a dichiararsi; sta meglio Anthony, il calciatore travolto dal successo, e sta meglio Robert, l'uomo d'affari che ha smarrito se stesso. Tutto sembra andare per il meglio, finché Alex non si rende conto che, in realtà, anche nella sua vita c’è qualcosa che non va. Pure lui deve riuscire a cambiare, a «guarire». Ma, si sa, consigliare gli altri è semplice, mentre risolvere i propri problemi può essere un’impresa impossibile. Soprattutto quando non si ha idea da quale libro cominciare...
Vi avevo proposto la recensione entusiasta del romanzo qui, e ho colto al volo l'occasione di incontrare l'autore e fargli qualche domanda su Alex, sulla scrittura e sulla lettura: ecco cosa mi ha raccontato!
Partiamo subito dal tuo protagonista, Alex, perchè il primo tema che il suo personaggio ci permette di affrontare è quello della diffusione della letteratura e dei suoi personaggi, tema che credo ti tocchi da vicino come insegnante. Quanto della tua esperienza personale c'è nel libro, per quanto riguarda questo tema?
Il rapporto così stretto e appassionato con la letteratura è ciò che condivido con Alex: insegno letteratura, quindi con quest'ultima ho un rapporto privilegiato ormai da parecchi anni.
Ciò che ci separa è invece il fatto che io non sono più così ossessionato dai libri da diversi anni: Alex è invaso dalla sua follia per i libri, ed è questo a impedirgli di vivere una vita piena.
Aggiungo che Alex può essere così invaso e pervaso dalla letteratura perchè è solo: io non sono solo, sono sposato e ho due figlie, e credo che se osassi farmi prendere così la mano sarei velocemente riportato alla realtà.
Conosciamo Alex in un momento molto delicato, subito dopo la fine della sua relazione sentimentale più importante, e grazie alle sue riflessioni e ai flashback abbiamo modo di scoprirne l'infanzia e l'adolescenza, e capendo cosa lo abbia portato ad attaccarsi così morbosamente alle parole altrui - forse anche per paura di dover tirare le sue.
Per questo ti chiedo: quanto sono importanti le parole che gli altri ci dicono quando siamo bambini, quanto ci restano dentro e quanto ci indirizzano verso quali altre parole ricercare?
Nel caso di Alex, quelle dei genitori (che non sono belle parole) sono determinanti.
Sicuramente le parole che ci vengono rivolte da bambini sono le prime "parole degli altri" che registriamo, e quindi sono determinanti.
Alex è una persona che si costruisce in opposizione con la madre, universitaria che considera la letteratura un oggetto di studio scientifico. Per lui la letteratura è qualcosa che può tranquillizzare le persone, e arrivare a toccarle nel loro intimo più profondo.
Per questo la sua evoluzione avviene in netta opposizione alla madre, ed era questo il personaggio che volevo raccontare.
Aggiungo che in questa opposizione tra madre e figlio c'è la letteratura, che diventa oggetto di potere tra i due.
Una curiosità personale: tanti libri, tanti autori, ma tutti rigorosamente classici. Come mai?
Mera preferenza personale, o deformazione professionale?
È vero, i classici sono protagonisti nel mio romanzo.
I classici hanno ormai provato di funzionare, attraversando i secoli: il loro principio attivo è forte, fortissimo. Pensiamo a Moliere, o a Racine: possiamo ancora ancora apprezzarli e comprenderli perchè ci comunicano la nascita dell'essere umano.
I romanzi contemporanei sono troppo vicino a noi: lasciamo loro il tempo di vivere e, forse, anche di morire.
Al centro del romanzo non ci sono solo i libri, ma anche la peculiare professione di Alex.
Citi un'università americana in cui esiste un vero e proprio corso di studi in Biblioterapia, ma è così anche in Europa? È una forma di terapia riconosciuta?
Sì, negli Stati Uniti esiste una formazione universitaria per diventare biblioterapeuti, mentre in Francia si tratta di corsi tenuti da una biblioterapeuta molto conosciuta, Régine Detambel.
Tutto questo per dire che la biblioterapia esiste e da molto tempo: è un mestiere che esiste da secoli, anche se forse non veniva definito in questo modo. Basta guardare ai lavori di Montaigne e Montesquieu.
Non si può non chiedertelo: qual è il "tuo" libro terapeutico, quello che ti fa stare bene?
Per me è sicuramente "La ricerca del tempo perduto" di Marcel Proust. È il "mio" libro essenziale, che ho riletto e continuo a rileggere.
In realtà rileggo tutta l'opera di Marcel Proust, incluse le poesie.
Il mio interesse nei cofnronti di questo autore nasce dal fatto che secondo me è arrivato al cuore dell'essere umano, a penetrarne i pensieri, e anche dopo tanto tempo riesce ancora a a toccarci e a commuoverci tutti. E questo nonostante vivesse in quasi totale reclusione.
Come le sorelle Bronte, del resto.
Esattamente, o anche Emily Dickinson, che vissuto reclusa in una casa piccolissima.
Marcel Proust, in uno dei suoi testi di gioventù, ha parlato di Noè e ha raccontato che da bambino era profondamente triste per questo personaggio pensando ai suoi 40 giorni chiuso nell'arca.
Poi ha capito che forse Noè non aveva mai visto così chiaramente il mondo come quando era rinchiuso all'interno dell'arca. È solo estraniandosi dal mondo che si riesce a percepirlo nel profondo e ad analizzarlo. Certo, non bisogna esagerare come fa Alex!
Grazie di cuore a Nord e a Michaël Uras per la disponibilità e per l'interessante chiacchierata!
Il romanzo è consigliatissimo a tutti i lettori, agli amanti di libri sui libri (come la sottoscritta) e ai fan della letteratura francese, perchè adoreranno l'atmosfera di "Le parole degli altri".
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
Oggi il blog ha un ospite molto speciale, che in Italia abbiamo potuto conoscere proprio questo mese grazie al suo "Le parole degli altri", edito Nord (rilegato a 16,90€): Michaël Uras!
Per tutti arriva il momento di scegliere cosa fare nella vita. Ed è arrivato anche per Alex. Lui, però, ha avuto un’idea geniale: perché non mettere a frutto la sua smisurata passione per i libri e il suo intuito nel saper leggere il cuore delle persone? Così si è inventato un mestiere: il biblioterapeuta. Invece di medicine, Alex dispensa ai suoi pazienti precisi consigli di lettura e li accompagna nella scoperta del potere salvifico delle parole: Aspettando Godot per chi ha troppo da fare, Il giovane Holden per chi ha paura di ribellarsi, l'Odissea per ritrovare il proprio posto nel mondo... E, grazie a quei consigli, le persone stanno meglio: sta meglio Yann, il ragazzo innamorato che non riesce a dichiararsi; sta meglio Anthony, il calciatore travolto dal successo, e sta meglio Robert, l'uomo d'affari che ha smarrito se stesso. Tutto sembra andare per il meglio, finché Alex non si rende conto che, in realtà, anche nella sua vita c’è qualcosa che non va. Pure lui deve riuscire a cambiare, a «guarire». Ma, si sa, consigliare gli altri è semplice, mentre risolvere i propri problemi può essere un’impresa impossibile. Soprattutto quando non si ha idea da quale libro cominciare...
Vi avevo proposto la recensione entusiasta del romanzo qui, e ho colto al volo l'occasione di incontrare l'autore e fargli qualche domanda su Alex, sulla scrittura e sulla lettura: ecco cosa mi ha raccontato!
Partiamo subito dal tuo protagonista, Alex, perchè il primo tema che il suo personaggio ci permette di affrontare è quello della diffusione della letteratura e dei suoi personaggi, tema che credo ti tocchi da vicino come insegnante. Quanto della tua esperienza personale c'è nel libro, per quanto riguarda questo tema?
Il rapporto così stretto e appassionato con la letteratura è ciò che condivido con Alex: insegno letteratura, quindi con quest'ultima ho un rapporto privilegiato ormai da parecchi anni.
Ciò che ci separa è invece il fatto che io non sono più così ossessionato dai libri da diversi anni: Alex è invaso dalla sua follia per i libri, ed è questo a impedirgli di vivere una vita piena.
Aggiungo che Alex può essere così invaso e pervaso dalla letteratura perchè è solo: io non sono solo, sono sposato e ho due figlie, e credo che se osassi farmi prendere così la mano sarei velocemente riportato alla realtà.
Conosciamo Alex in un momento molto delicato, subito dopo la fine della sua relazione sentimentale più importante, e grazie alle sue riflessioni e ai flashback abbiamo modo di scoprirne l'infanzia e l'adolescenza, e capendo cosa lo abbia portato ad attaccarsi così morbosamente alle parole altrui - forse anche per paura di dover tirare le sue.
Per questo ti chiedo: quanto sono importanti le parole che gli altri ci dicono quando siamo bambini, quanto ci restano dentro e quanto ci indirizzano verso quali altre parole ricercare?
Nel caso di Alex, quelle dei genitori (che non sono belle parole) sono determinanti.
Sicuramente le parole che ci vengono rivolte da bambini sono le prime "parole degli altri" che registriamo, e quindi sono determinanti.
Alex è una persona che si costruisce in opposizione con la madre, universitaria che considera la letteratura un oggetto di studio scientifico. Per lui la letteratura è qualcosa che può tranquillizzare le persone, e arrivare a toccarle nel loro intimo più profondo.
Per questo la sua evoluzione avviene in netta opposizione alla madre, ed era questo il personaggio che volevo raccontare.
Aggiungo che in questa opposizione tra madre e figlio c'è la letteratura, che diventa oggetto di potere tra i due.
Una curiosità personale: tanti libri, tanti autori, ma tutti rigorosamente classici. Come mai?
Mera preferenza personale, o deformazione professionale?
È vero, i classici sono protagonisti nel mio romanzo.
I classici hanno ormai provato di funzionare, attraversando i secoli: il loro principio attivo è forte, fortissimo. Pensiamo a Moliere, o a Racine: possiamo ancora ancora apprezzarli e comprenderli perchè ci comunicano la nascita dell'essere umano.
I romanzi contemporanei sono troppo vicino a noi: lasciamo loro il tempo di vivere e, forse, anche di morire.
Al centro del romanzo non ci sono solo i libri, ma anche la peculiare professione di Alex.
Citi un'università americana in cui esiste un vero e proprio corso di studi in Biblioterapia, ma è così anche in Europa? È una forma di terapia riconosciuta?
Sì, negli Stati Uniti esiste una formazione universitaria per diventare biblioterapeuti, mentre in Francia si tratta di corsi tenuti da una biblioterapeuta molto conosciuta, Régine Detambel.
Tutto questo per dire che la biblioterapia esiste e da molto tempo: è un mestiere che esiste da secoli, anche se forse non veniva definito in questo modo. Basta guardare ai lavori di Montaigne e Montesquieu.
Non si può non chiedertelo: qual è il "tuo" libro terapeutico, quello che ti fa stare bene?
Per me è sicuramente "La ricerca del tempo perduto" di Marcel Proust. È il "mio" libro essenziale, che ho riletto e continuo a rileggere.
In realtà rileggo tutta l'opera di Marcel Proust, incluse le poesie.
Il mio interesse nei cofnronti di questo autore nasce dal fatto che secondo me è arrivato al cuore dell'essere umano, a penetrarne i pensieri, e anche dopo tanto tempo riesce ancora a a toccarci e a commuoverci tutti. E questo nonostante vivesse in quasi totale reclusione.
Come le sorelle Bronte, del resto.
Esattamente, o anche Emily Dickinson, che vissuto reclusa in una casa piccolissima.
Marcel Proust, in uno dei suoi testi di gioventù, ha parlato di Noè e ha raccontato che da bambino era profondamente triste per questo personaggio pensando ai suoi 40 giorni chiuso nell'arca.
Poi ha capito che forse Noè non aveva mai visto così chiaramente il mondo come quando era rinchiuso all'interno dell'arca. È solo estraniandosi dal mondo che si riesce a percepirlo nel profondo e ad analizzarlo. Certo, non bisogna esagerare come fa Alex!
Grazie di cuore a Nord e a Michaël Uras per la disponibilità e per l'interessante chiacchierata!
Il romanzo è consigliatissimo a tutti i lettori, agli amanti di libri sui libri (come la sottoscritta) e ai fan della letteratura francese, perchè adoreranno l'atmosfera di "Le parole degli altri".
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
venerdì 21 aprile 2017
Di diari, pigiami e... vampiri: intervista a Mathias Malzieu
Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Oggi il blog ospita l'autore che ha conquistato il mondo intero con il suo "La meccanica del cuore": Mathias Malzieu.
Per la prima volta a Milano e di nuovo in libreria con "Vampiro in pigiama" (brossurato a 15€), edito Feltrinelli, un po' romanzo e un po' memoir per raccontare la malattia e come la si supera giorno dopo giorno:
Mathias Malzieu ha sempre sognato di essere un supereroe ma, scopre, anche i supereroi si ammalano. E spesso in maniera grave, al punto da ricorrere a un trapianto, proprio come accade a Mathias. Con la stessa leggerezza e ironia di Jack e Tom Cloudman, gli eroi dei suoi romanzi precedenti, l'autore narra in prima persona le cure mediche ricevute, le degenze negli ospedali, gli incontri di grande impatto emotivo in quei luoghi freddi e asettici, ma soprattutto mette a nudo i sentimenti provati, dal dolore fisico alla rabbiosa gioia di vivere, dall'amore per i cari e per l'adorabile Rosy, al piacere di assaporare le piccole cose quotidiane: il sole, il vento, una Coca ghiacciata, la visione di un film, il gusto di un bacio. Il desiderio di creare, di fare musica, di promuovere il suo film "Jack e la meccanica del cuore", che uscirà a ridosso della diagnosi, terranno accesa la straordinaria vitalità di questo eterno bambino che non rinuncia alle sue galoppate in skateboard né ai suoi sogni. Stoico e coraggioso come un Cavaliere Jedi, affronterà questa battaglia, rinascendo per una seconda volta, grazie al sangue di un cordone ombelicale. L'immaginario pop, le atmosfere oniriche, la scrittura rendono "Vampiro in pigiama" un autentico inno alla vita, vibrante di sincera riconoscenza verso l'umanità.
Ecco cosa ci ha raccontato!
"La meccanica del cuore" ti ha fatto conoscere ed apprezzare in tutto il mondo, e i tuoi lavori precedenti hanno confermato a noi lettori il tuo talento e a te il nostro apprezzamento.
Stavolta però arrivi in libreria con qualcosa di molto diverso e decisamente più personale: quanta pressione senti? È un ostacolo o uno stimolo?
Sicuramente uno stimolo: è ciò che mi dà lo slancio, un soffio d'aria fresca.
È come se si creasse un legame telepatico tra l'autore e il suo pubblico che da qualche parte, a un certo punto, leggerà il libro.
Sapere di essere apprezzato è sicuramente anche una forte motivazione per continuare a scrivere, perchè io quando lavoro penso sempre ai miei lettori e a ciò che spero possa piacergli.
In "Vampiro in pigiama" non c'è solo qualcosa di te: ci sei tu, al cento per cento.
Com'è stato mettersi così a nudo di fronte al lettore?
Se qualcuno me lo avesse proposto qualche anno fa avrei risposto senza esitazione «Ma sei matto?! Mai nella vita!». Condividere il mio diario con il pubblico? Assolutamente no, anche perchè la forma che resta più nelle mie corde è comunque quella del romanzo, in cui invento personaggi che vivono una vita propria.
Ma la malattia ha cambiato le carte in tavola, nel senso che per me scrivere questo diario è stato una forma di allenamento, simile a quello degli atleti prima di correre una maratona: giorno dopo giorno, allenvao la mia immaginazione scrivendo e senza mai rileggere.
Solo quando sono stato meglio ho iniziato a rileggerlo, quando non ero più un vampiro in pigiama, bisognoso del sangue altrui per stare meglio. È stato allora che ho realizzato quanto quella del diario fosse stata la formula giusta per esprimere quanto provavo, una sorta di catarsi che volevo condividere con il pubblico. Non in quanto storia di una malattia, ma come storia di una rinascita.
Certo, una volta arrivato alla sua conclusione mi sono posto la domanda: tenerlo così, in forma diaristica, o trasformarlo in un romanzo? Pubblicarlo o non pubblicarlo?
Ovviamente è stato rivisto e rielaborato, ma la base del diario è quella originale, così come lo sono le date e i miei pensieri.
Potresti essere accusato - dai più sprovveduti - di aver voluto sfruttare un filone redditizio.
Riesco a immaginare qualcuno che alza gli occhi al cielo commentando "ecco l'ennesimo che parla della sua malattia"...
Quando ho scritto questo diario non l'ho fatto pensando di seguire una moda, ma riflettendo da vero combattente, creando tutto intorno a me un esercito invisibile che mi difendesse.
Soprattutto per le notti: di giorno ero circondato e sostenuto dai miei cari, ma di notte la mia immaginazione mi ha sostenuto.
Questo per dire che il punto non è la malattia in sè, anzi, forse è la scusa della storia: l'ho anche chiamata Damocle, per ironizzare.
Non volevo scrivere qualcosa di triste, e anzi, spero di essere riuscito ad essere anche ironico e leggero in alcuni punti: non era mia intenzione dare ai lettori qualcosa di pesante e deprimente.
Volevo raccontare i sentimenti scatenati dalla malattia, e gli sbalzi di umore e di emozione che hanno caratterizzato quel periodo.
Dovevo trasmettere la paura, ma anche e soprattutto la speranza.
Se ci pensi, la mia guarigione ha del magico: sono qui grazie al cordone ombelicale di una donna che ha partorito a Dusseldorf negli anni novanta.
Se non è magico questo!
Parliamo di scrittura. Ogni autore è differente, da chi è molto abitudinario a chi segue solo ed esclusivamente l'ispirazione del momento: tu come ti posizioni tra questi due estremi?
C'è qualche curiosità che puoi svelarci sul Mathias Malzieu scrittore?
Quando ero ricoverato in ospedale sì, praticamente ogni mia giornata era scandita da riti.
Alle 6 di mattina, ogni singolo giorno, mi veniva fatto un prelievo, e sapevo che da lì alle 9 non sarebbe successo nulla: riempivo quelle ore dedicandomi alla scritura del diario.
È la forma stessa del diario a richiedere la scrittura quotidiana, e potevano essere tre frasi o tre pagine ma l'importante era scrivere qualcosa.
In generale, nella mia vita fuori dall'ospedale (prima e dopo la malattia), amo la notte.
La notte è piena di mistero ed è come un bozzolo che ti avvolge e ti accoglie nel suo silenzio: non c'è rumore, non ci sono email alle quali rispondere.
Questo tema del "bozzolo" mi appartiene: il mio posto preferito per creare e riflettere è una poltrona-uovo, nella quale posso sentirmi completamente avvolto e rannicchiato al suo interno.
Oltre a scrivere romanzi, sei anche autore di canzoni: quanto cambia nel tuo processo creativo quando approcci un testo in prosa e quello di unbrano musicale?
Ciò che influenza maggiormente il tutto è la lunghezza differente dei testi: una canzone deve partire con slancio, e deve essere efficace e sintetica, raccontando una storia e condividendo un messaggio nel giro di pochi minuti.
Invece se se si tenesse questo stesso ritmo scrivendo un romanzo ci si troverebbe con il fiatone subito: una canzone è uno scatto, un romanzo una maratona.
I muscoli che vengono attivati sono diversi, sia nel caso fisico che in quello dell'immaginazione.
"La meccanica del cuore" è diventato un film, e il tuo è un caso davvero particolare perchè non sei solo l'autore del romanzo ma anche lo sceneggiatore, l'autore e interprete di musiche e canzoni, e dai la tua voce a un personaggio. Hai anche aperto e chiuso il cinema, giusto?
Esattamente, ho persino preparato i popcorn, oltre a mangiarne molti.
Posso anticiparti anche che sto lavorando al nuovo romanzo, e allo stesso tempo ne sto scrivendo scenenggiatura e musiche.
Questo perchè mi considero un artista, l'etichetta di "romanziere" o "musicista" mi sta stretta.
Per me queste tre modalità di scrittura sono tutte nelle mie corde e lo strumento perfetto per raccontare ed esprimere sentimenti e sensibilità umane.
Ognuna di queste forme di scrittura oltre a permettermi di raccontare la stessa storia in modo diverso mi permette anche di esplorare emozioni differenti.
Inoltre, a differenza delle musiche, che per essere incise e lavorate richiedono di attrezzatura, per la scrittura basta l'immaginazione. I miei vicini non sarebbero d'accordo se iniziassi a suonare di notte, ma scrivere invece si può fare.
Grazie, grazie, grazie a Feltrinelli e a Mathias Malzieu per l'opportunità di scoprire qualcosa di più su un autore che mi piace moltissimo!
Avete già letto "Vampiro in pigiama"?
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
Oggi il blog ospita l'autore che ha conquistato il mondo intero con il suo "La meccanica del cuore": Mathias Malzieu.
Per la prima volta a Milano e di nuovo in libreria con "Vampiro in pigiama" (brossurato a 15€), edito Feltrinelli, un po' romanzo e un po' memoir per raccontare la malattia e come la si supera giorno dopo giorno:
Mathias Malzieu ha sempre sognato di essere un supereroe ma, scopre, anche i supereroi si ammalano. E spesso in maniera grave, al punto da ricorrere a un trapianto, proprio come accade a Mathias. Con la stessa leggerezza e ironia di Jack e Tom Cloudman, gli eroi dei suoi romanzi precedenti, l'autore narra in prima persona le cure mediche ricevute, le degenze negli ospedali, gli incontri di grande impatto emotivo in quei luoghi freddi e asettici, ma soprattutto mette a nudo i sentimenti provati, dal dolore fisico alla rabbiosa gioia di vivere, dall'amore per i cari e per l'adorabile Rosy, al piacere di assaporare le piccole cose quotidiane: il sole, il vento, una Coca ghiacciata, la visione di un film, il gusto di un bacio. Il desiderio di creare, di fare musica, di promuovere il suo film "Jack e la meccanica del cuore", che uscirà a ridosso della diagnosi, terranno accesa la straordinaria vitalità di questo eterno bambino che non rinuncia alle sue galoppate in skateboard né ai suoi sogni. Stoico e coraggioso come un Cavaliere Jedi, affronterà questa battaglia, rinascendo per una seconda volta, grazie al sangue di un cordone ombelicale. L'immaginario pop, le atmosfere oniriche, la scrittura rendono "Vampiro in pigiama" un autentico inno alla vita, vibrante di sincera riconoscenza verso l'umanità.
Ecco cosa ci ha raccontato!
"La meccanica del cuore" ti ha fatto conoscere ed apprezzare in tutto il mondo, e i tuoi lavori precedenti hanno confermato a noi lettori il tuo talento e a te il nostro apprezzamento.
Stavolta però arrivi in libreria con qualcosa di molto diverso e decisamente più personale: quanta pressione senti? È un ostacolo o uno stimolo?
Sicuramente uno stimolo: è ciò che mi dà lo slancio, un soffio d'aria fresca.
È come se si creasse un legame telepatico tra l'autore e il suo pubblico che da qualche parte, a un certo punto, leggerà il libro.
Sapere di essere apprezzato è sicuramente anche una forte motivazione per continuare a scrivere, perchè io quando lavoro penso sempre ai miei lettori e a ciò che spero possa piacergli.
In "Vampiro in pigiama" non c'è solo qualcosa di te: ci sei tu, al cento per cento.
Com'è stato mettersi così a nudo di fronte al lettore?
Se qualcuno me lo avesse proposto qualche anno fa avrei risposto senza esitazione «Ma sei matto?! Mai nella vita!». Condividere il mio diario con il pubblico? Assolutamente no, anche perchè la forma che resta più nelle mie corde è comunque quella del romanzo, in cui invento personaggi che vivono una vita propria.
Ma la malattia ha cambiato le carte in tavola, nel senso che per me scrivere questo diario è stato una forma di allenamento, simile a quello degli atleti prima di correre una maratona: giorno dopo giorno, allenvao la mia immaginazione scrivendo e senza mai rileggere.
Solo quando sono stato meglio ho iniziato a rileggerlo, quando non ero più un vampiro in pigiama, bisognoso del sangue altrui per stare meglio. È stato allora che ho realizzato quanto quella del diario fosse stata la formula giusta per esprimere quanto provavo, una sorta di catarsi che volevo condividere con il pubblico. Non in quanto storia di una malattia, ma come storia di una rinascita.
Certo, una volta arrivato alla sua conclusione mi sono posto la domanda: tenerlo così, in forma diaristica, o trasformarlo in un romanzo? Pubblicarlo o non pubblicarlo?
Ovviamente è stato rivisto e rielaborato, ma la base del diario è quella originale, così come lo sono le date e i miei pensieri.
Potresti essere accusato - dai più sprovveduti - di aver voluto sfruttare un filone redditizio.
Riesco a immaginare qualcuno che alza gli occhi al cielo commentando "ecco l'ennesimo che parla della sua malattia"...
Quando ho scritto questo diario non l'ho fatto pensando di seguire una moda, ma riflettendo da vero combattente, creando tutto intorno a me un esercito invisibile che mi difendesse.
Soprattutto per le notti: di giorno ero circondato e sostenuto dai miei cari, ma di notte la mia immaginazione mi ha sostenuto.
Questo per dire che il punto non è la malattia in sè, anzi, forse è la scusa della storia: l'ho anche chiamata Damocle, per ironizzare.
Non volevo scrivere qualcosa di triste, e anzi, spero di essere riuscito ad essere anche ironico e leggero in alcuni punti: non era mia intenzione dare ai lettori qualcosa di pesante e deprimente.
Volevo raccontare i sentimenti scatenati dalla malattia, e gli sbalzi di umore e di emozione che hanno caratterizzato quel periodo.
Dovevo trasmettere la paura, ma anche e soprattutto la speranza.
Se ci pensi, la mia guarigione ha del magico: sono qui grazie al cordone ombelicale di una donna che ha partorito a Dusseldorf negli anni novanta.
Se non è magico questo!
Parliamo di scrittura. Ogni autore è differente, da chi è molto abitudinario a chi segue solo ed esclusivamente l'ispirazione del momento: tu come ti posizioni tra questi due estremi?
C'è qualche curiosità che puoi svelarci sul Mathias Malzieu scrittore?
Quando ero ricoverato in ospedale sì, praticamente ogni mia giornata era scandita da riti.
Alle 6 di mattina, ogni singolo giorno, mi veniva fatto un prelievo, e sapevo che da lì alle 9 non sarebbe successo nulla: riempivo quelle ore dedicandomi alla scritura del diario.
È la forma stessa del diario a richiedere la scrittura quotidiana, e potevano essere tre frasi o tre pagine ma l'importante era scrivere qualcosa.
In generale, nella mia vita fuori dall'ospedale (prima e dopo la malattia), amo la notte.
La notte è piena di mistero ed è come un bozzolo che ti avvolge e ti accoglie nel suo silenzio: non c'è rumore, non ci sono email alle quali rispondere.
Questo tema del "bozzolo" mi appartiene: il mio posto preferito per creare e riflettere è una poltrona-uovo, nella quale posso sentirmi completamente avvolto e rannicchiato al suo interno.
Oltre a scrivere romanzi, sei anche autore di canzoni: quanto cambia nel tuo processo creativo quando approcci un testo in prosa e quello di unbrano musicale?
Ciò che influenza maggiormente il tutto è la lunghezza differente dei testi: una canzone deve partire con slancio, e deve essere efficace e sintetica, raccontando una storia e condividendo un messaggio nel giro di pochi minuti.
Invece se se si tenesse questo stesso ritmo scrivendo un romanzo ci si troverebbe con il fiatone subito: una canzone è uno scatto, un romanzo una maratona.
I muscoli che vengono attivati sono diversi, sia nel caso fisico che in quello dell'immaginazione.
"La meccanica del cuore" è diventato un film, e il tuo è un caso davvero particolare perchè non sei solo l'autore del romanzo ma anche lo sceneggiatore, l'autore e interprete di musiche e canzoni, e dai la tua voce a un personaggio. Hai anche aperto e chiuso il cinema, giusto?
Esattamente, ho persino preparato i popcorn, oltre a mangiarne molti.
Posso anticiparti anche che sto lavorando al nuovo romanzo, e allo stesso tempo ne sto scrivendo scenenggiatura e musiche.
Questo perchè mi considero un artista, l'etichetta di "romanziere" o "musicista" mi sta stretta.
Per me queste tre modalità di scrittura sono tutte nelle mie corde e lo strumento perfetto per raccontare ed esprimere sentimenti e sensibilità umane.
Ognuna di queste forme di scrittura oltre a permettermi di raccontare la stessa storia in modo diverso mi permette anche di esplorare emozioni differenti.
Inoltre, a differenza delle musiche, che per essere incise e lavorate richiedono di attrezzatura, per la scrittura basta l'immaginazione. I miei vicini non sarebbero d'accordo se iniziassi a suonare di notte, ma scrivere invece si può fare.
Grazie, grazie, grazie a Feltrinelli e a Mathias Malzieu per l'opportunità di scoprire qualcosa di più su un autore che mi piace moltissimo!
Avete già letto "Vampiro in pigiama"?
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
"Driven - Vinti dall'amore" di K. Bromberg
Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
La chiacchiera librosa di oggi è dedicata a "Driven - Vinti dall'amore" di K. Bromberg, edito Fabbri Editori (brossurato a 16,90€):
Accade tutto in un istante. L'auto di Colton, lanciata sul circuito di gara a trecento chilometri orari, scompare in una densa nube di fumo e ne esce vorticando in aria, per poi schiantarsi al suolo. Per Rylee è come rivivere la tragedia del suo ex: la corsa disperata verso l'ospedale, i minuti di ansia trascorsi sapendolo in bilico tra la vita e la morte, le ore di angoscia in attesa della prognosi. Ma quando Colton riprende conoscenza, la ragazza non ha più dubbi. Il suo unico desiderio è stare accanto a lui, all'uomo che ama. La riabilitazione, però, è lunga e faticosa. Colton adesso si trova ad affrontare, oltre ai fantasmi del passato che non gli danno mai tregua, anche i violenti attacchi di panico scatenati dal trauma dell'incidente. E persino la minaccia di uno scandalo... Finché una notte, davanti alla perdita più lacerante, Colton riesce a confessare a Rylee il segreto che non hai mai avuto il coraggio di svelare a nessuno e di cui è rimasto prigioniero per tutta la vita. In un sol colpo, tutte le barriere si infrangono e nel buio dell'anima del ragazzo si accende una luce inaspettata: forse, anche lui è finalmente libero di amare.
E ci siamo, anche io ho finito questa serie!
In realtà mancherebbe da leggere "Raced", il volume companion che propone scene inedite o scene già scoperte solo dal POV di Rylee, stavolta dal POV di Colton.
Insomma, sono 145 pagine di Colton, e mica si può dire di no.
Ma veniamo a noi!
Colton ha rischiato di morire o (e forse è anche peggio) di trovarsi in gravissime condizioni fisiche dopo il suo terribile incidente che chiudeva il secondo volume della trilogia.
Ma ne è uscito in condizioni discrete, in fondo, e anzi, gli si prospetta un ritorno alla guida in un tempo relativamente breve.
Deve solo decidere se la cosa lo entusiasma o lo terrorizza, e si sa che quando si tratta di Colton non è mai tutto bianco o nero.
Soprattutto quando il trauma dell'incidente sembra aver risvegliato ulteriori traumi sopiti dell'infanzia, trasformando ogni sua notte in un susseguirsi di incubi tremendi dai quali nemmeno Rylee riesce a salvarlo.
La ragazza, in questo volume finale di quella che costituisce a tutti gli effetti una trilogia a sè stante nella ben più lunga serie Driven, deve affrontare qualcosa che nessuna donna vorrebbe mai vivere, e lo fa con una forza d'animo invidiabile. Se nel primo volume questa forza sembrava più un brutto carattere che vera determinazione, stavolta Rylee mi è piaciuta moltissimo.
Alcune conversazioni tra lei e Colton mi hanno stretto il cuore, e che dire del finale?
Meraviglioso.
Quando si arriva alla fine è anche il momento in cui si va a dare un giudizio sulla storia nel suo complesso, e con "Driven" lo posso dire: è una serie che, sulla carta, sembrava non fare assolutamente per me, e che invece mi ha catturata.
Ho letto ogni libro a tutta birra, forse ispirata dalla guida spericolata di Colton ma soprattutto perchè ne volevo di più.
Ammetto di aver - un paio di volte di sicuro - scorso velocemente le pagine riguardanti amplessi un po' troppo lunghi (se trovo un rapporto che dura ben sei facciate, posto che insomma, sappiamo cosa succede alla fine, a volta scivolo con lo sguardo epr scoprire cosa succede dopo. Lo ammetto), ma epr il resto davvero nessuna critica da fare.
#GoColton e #GoRylee
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
La chiacchiera librosa di oggi è dedicata a "Driven - Vinti dall'amore" di K. Bromberg, edito Fabbri Editori (brossurato a 16,90€):
Accade tutto in un istante. L'auto di Colton, lanciata sul circuito di gara a trecento chilometri orari, scompare in una densa nube di fumo e ne esce vorticando in aria, per poi schiantarsi al suolo. Per Rylee è come rivivere la tragedia del suo ex: la corsa disperata verso l'ospedale, i minuti di ansia trascorsi sapendolo in bilico tra la vita e la morte, le ore di angoscia in attesa della prognosi. Ma quando Colton riprende conoscenza, la ragazza non ha più dubbi. Il suo unico desiderio è stare accanto a lui, all'uomo che ama. La riabilitazione, però, è lunga e faticosa. Colton adesso si trova ad affrontare, oltre ai fantasmi del passato che non gli danno mai tregua, anche i violenti attacchi di panico scatenati dal trauma dell'incidente. E persino la minaccia di uno scandalo... Finché una notte, davanti alla perdita più lacerante, Colton riesce a confessare a Rylee il segreto che non hai mai avuto il coraggio di svelare a nessuno e di cui è rimasto prigioniero per tutta la vita. In un sol colpo, tutte le barriere si infrangono e nel buio dell'anima del ragazzo si accende una luce inaspettata: forse, anche lui è finalmente libero di amare.
E ci siamo, anche io ho finito questa serie!
In realtà mancherebbe da leggere "Raced", il volume companion che propone scene inedite o scene già scoperte solo dal POV di Rylee, stavolta dal POV di Colton.
Insomma, sono 145 pagine di Colton, e mica si può dire di no.
Ma veniamo a noi!
Colton ha rischiato di morire o (e forse è anche peggio) di trovarsi in gravissime condizioni fisiche dopo il suo terribile incidente che chiudeva il secondo volume della trilogia.
Ma ne è uscito in condizioni discrete, in fondo, e anzi, gli si prospetta un ritorno alla guida in un tempo relativamente breve.
Deve solo decidere se la cosa lo entusiasma o lo terrorizza, e si sa che quando si tratta di Colton non è mai tutto bianco o nero.
Soprattutto quando il trauma dell'incidente sembra aver risvegliato ulteriori traumi sopiti dell'infanzia, trasformando ogni sua notte in un susseguirsi di incubi tremendi dai quali nemmeno Rylee riesce a salvarlo.
La ragazza, in questo volume finale di quella che costituisce a tutti gli effetti una trilogia a sè stante nella ben più lunga serie Driven, deve affrontare qualcosa che nessuna donna vorrebbe mai vivere, e lo fa con una forza d'animo invidiabile. Se nel primo volume questa forza sembrava più un brutto carattere che vera determinazione, stavolta Rylee mi è piaciuta moltissimo.
Alcune conversazioni tra lei e Colton mi hanno stretto il cuore, e che dire del finale?
Meraviglioso.
Quando si arriva alla fine è anche il momento in cui si va a dare un giudizio sulla storia nel suo complesso, e con "Driven" lo posso dire: è una serie che, sulla carta, sembrava non fare assolutamente per me, e che invece mi ha catturata.
Ho letto ogni libro a tutta birra, forse ispirata dalla guida spericolata di Colton ma soprattutto perchè ne volevo di più.
Ammetto di aver - un paio di volte di sicuro - scorso velocemente le pagine riguardanti amplessi un po' troppo lunghi (se trovo un rapporto che dura ben sei facciate, posto che insomma, sappiamo cosa succede alla fine, a volta scivolo con lo sguardo epr scoprire cosa succede dopo. Lo ammetto), ma epr il resto davvero nessuna critica da fare.
#GoColton e #GoRylee
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
giovedì 20 aprile 2017
Uno scarabeo per amico: intervista a M.G. Leonard
Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Oggi il blog ha un'ospite frizzante e divertente, pronta a conquistarvi con la sua simpatia e con il suo romanzo "Il ragazzo degli scarabei", edito De Agostini: M.G. Leonard!
La vita di Darkus fa decisamente schifo. Da quando suo padre è scomparso nel nulla, tutto è andato a rotoli. Darkus si è ritrovato solo, a vivere in una casa che non conosce con uno zio che non sa badare a lui. Come se non bastasse, i vicini sono due tizi a dir poco disgustosi che accumulano montagne di immondizia e di insetti nel cortile. Ed è proprio da lì – precisamente dai pantaloni del signor Humphrey – che Darkus vede spuntare uno scarabeo gigante, il più grande che abbia mai immaginato. Vorrebbe scappare a gambe levate, ma qualcosa lo trattiene: forse gli occhietti simpatici dell’insetto, o forse il desiderio di trovare un amico. Presto Darkus capisce che quella strana creatura è in grado di comunicare con lui, e decide di portarla a casa con sé. Ma un ragazzino può davvero fare amicizia con un insetto? E un insetto può aiutarlo a ritrovare
il padre scomparso? È possibile. Soprattutto se l’unica persona al mondo ad avere notizie del papà di Darkus è Lucretia Cutter, una perfida collezionista di gioielli a forma di scarabeo.
Un romanzo per ragazzi che insegna ad amare qualcosa di piccolo e spesso - possiamo dirlo - non in cima alle comuni preferenze: gli insetti.
Perchè è proprio uno scarabeo il piccolo, grande protagonista di questo romanzo che ha conquistato i lettori inglesi ed è sbarcato in Italia in inverno.
Abbiamo incontrato l'autrice a Tempo di libri, ed ecco cosa ci ha raccontato!
Posso iniziare dicendo che sono terrorizzata dagli insetti, e che quindi la mia prima domanda è. ma perchè proprio uno scarabeo?
Ero spaventata anch'io! Non avevo paura dei topi, per esempio, ma degli insetti, soprattutto dei minuscoli invertebrati... brrrr!
Posti come i giardini delle farfalle per me sono terrificanti: un'amica ha pensato che fosse una buona idea portarmici e mi sono trovata con il cappotto chiuso fino al mento, terrorizzata all'idea che una sola creatura volante mi si posasse addosso.
Capisco la tua posizione! È stata anche la mia per tutta la vita, così com'ero anche spavenatta dalle altezze e credevo che lo sarei stata per tutta la vita.
Ho poi iniziato a scrivere una storia in cui avevo deciso che il"cattivo" - per essere davvero spaventoso - sarebbe stato completamente coperto di insetti e avrebbe vissuto in un posto disgustoso, ma ho realizzato, vergognandomene molto, che avrei dovuto descriverli.
All'inizio pensavo ai ragni, ma ho scoperto che non sono insetti: sono aracnidi.
Lo stesso discorso valeva per i millepiedi: chissà che creature erano!
Ho realizzato di non sapere proprio nulla degli insetti, insomma, e di dovermi informare se non volevo riempire di errori il mio libro e farmi letteralmente ridere dietro da tutti.
Dovevo imparare il più possibile sugli insetti per poterli descrivere al meglio, e una delle creature che dovevo studiare erano gli scarabei.
Ho inserito "scarabeo" su Google - che è come faccio ogni mia ricerca - e ricordo che si è aperta la pagina di Wikipedia in cui ho letto la frase che avrebbe cambiato la mia vita. Diceva che il nome scientifico dello scarabeo è coleottero, ed è dotato di due paia di ali con le quali riesce a volare.
Lì per lì mi sono detta "ma non è vero, gli scarabei non volano! Si limitano a sgattaiolare in giro!", ma poi mi sono convinta che era la mia idea a essere sbagliata.
Non sapevo davvero nulla, nemmeno degli scarabei.
Due lauree, e non sapevo nemmeno cosa fosse uno scarabeo: mi sono sentita molto stupida!
Ho persino messo alla prova le mie amiche, e nemmeno loro sapevano che gli scrabei volassero.
Mi ha fatto riflettere sul fatto che, ehi, se nessuno ne sa nulla, magari non c'è una vera e propria letteratura con gli scarabei come protagonisti. Ed era così!
Ho pensato "ma è fantastico! Ho scoperto qualcosa che non è mai stato fatto! Devo scrivere questo libro!", ma c'erano due problemi: non sapevo niente sugli scarabei, e mi terrorizzavano.
Però devo ammettere che più studiavo e meno mi spaventavano: forse perchè quello che conosciamo ci fa meno paura.
Ho superato l'ultimo scoglio - toccare degli insetti - durante le riprese di un programma dal vivo in cui ero ospite per parlare del mio libro a un pubblico di dieci milioni di ragazzini: il copione prevedeva che toccassi degli insetti, e per farlo ho dovuto lavorare sodo e superare la mia fobia.
Sono riuscita a tenere in mano una tarantola per dieci secondi!
Ora amo gli scarabei al punto da averne alcuni come animali domestici, in un terrario: purtroppo due settimane fa uno di loro è morto. Non vivono molto a lungo, al massimo diciotto mesi ma in media solo tre/quattro.
Credo che proprio per questo il mio romanzo sia così efficace nel parlare ai ragazzi del rapporto con gli insetti: perchè rappresenta anche il mio percorso dalla paura alla conoscenza, e all'apprezzamento.
Non nasci amante degli insetti, ma nemmeno romanziera: eri una produttrice.
Cosa ti ha convinta a dare una svolta simile alla tua carriera?
Non è stata proprio una scelta, perchè io amavo il mio lavoro.
Non avevo però una scelta, in proposito, perchè ormai avevo raggiunto il livello più alto possibile come produttrice. Non potevo più essere promossa, quindi quella posizione era mia fino alla pensione: non è un pensiero stimolante, quello di non poter più crescere.
Quando ho scritto il romanzo non credevo di poter avere successo, soprattutto pensando al fatto che molti dei miei amici scrittori di fatto lavoravano in librerie o come camerieri per mantenersi, dato che con i libri non si diventa facilmente ricchi.
Poi mi è venuta questa idea, ed ero così eccitata mentre ci lavoravo, senza pensare a una possibile pubblicazione. Di sicuro non potevo immaginare un tale successo.
È stato porprio questo successo a portarmi al punto di dover scegliere: tenermi il lavoro sicuro, o buttarmi in questa nuova avventura sapendo di non poter tornare indietro.
Ho potuto prendermi un anno sabbatico, ma al mio ritorno mi sono licenziata, quindi adesso devo per forza riuscire a far funzionare questa cosa della scrittura, perchè ho rinunciato al posto di lavoro migliore che potessi avere: una bella pressione!
Non ho scritto "Il ragazzo degli scarabei" perchè insoddisfatta del mio lavoro o per arricchirmi, ma semplicemente perchè la storia di Darkus mi ha trovata: ora lavorerò sodo perchè tutto vada come deve andare!
Darkus e il suo amico scarabeo si trovano ad affrontare un problema davvero semplice e allo stesso tempo complicato: come comunichi con un animale?
Quanto è stato difficile per te costruire intere scene in cui Darkus dialoga con l'insetto, senza che ci sia un'effettiva risposta?
Per risponderti ti racconto un aneddoto dei miei tempi da produttrice.
In Inghilterra abbiamo avuto un grandissimo successo con una rappresentazione di "War Horse", tratto dal celebre romanzo di Michael Molpurgo - ne hanno anche tratto un film, dopo aver visto la nostra produzione!
Nel romanzo il lettore ha il punto di vista del cavallo, del quale quindi sente i pensieri: in una rappresentazione non riesci a rendere questa cosa, così come non puoi portare un cavallo vero sul palcoscenico. Che fare?
Alla fine abbiamo costruito un enorme cavallo, che richiedeva sei persone per essere manovrato, e la relazione tra il ragazzo e il cavallo si sviluppava tutta grazie all'immaginazione del pubblico: lo vedevi accarezzare il cavallo, che muoveva la testa, e da lì veniva colto l'amore tra i due.
Ho curato questa produzione epr quattro anni, studiando a fondo il linguaggio dei gesti e il potere dell'immaginazione del pubblico, e questo si vede nel mio romanzo: dai movimenti dello scarabeo si capisce ciò che cerca di comunicare a Darkus. È il lettore a cogliere questi gesti, e i bambini sono bravissimi in questo: quando vado nelle scuole lo scarabeo è sempre il personaggio più amato.
Agli adulti interessa Darkus, ma ai bambini piace l'insetto e ne colgono ogni atto gentile.
Alcuni dei comportamenti dello scarabeo mi hanno ricordato quelli dei cani, sai?
Il modo di abbracciare, per esempio.
Non ho cani, ma ho dei gatti: amo gli animali!
E anche in loro si riscontra questo comportamento, in effetti.
Credo che comunque l'unica differenza sia che siamo più portati a dimostrare affetto ai mammiferi piuttosto che agli invertebrati. O agli uccelli: io amo gli uccelli, ma se ne entra uno in casa impazzisco, perchè come faccio a farlo uscire?
Diciamo che tutto sta meglio nel suo giusto ambiente naturale!
Parliamo della tua "cattiva", di Lucretia?
Un personaggio davvero peculiare, scienziata ma anche fashion stylist: com'è nata?
Ha un passato da scienziata, ma il suo business è nella moda.
Ho scelto queste due sfaccettature per il suo personaggio perchè Lucretia ha un grande piano, di cui saprete di più leggendo il secondo libro - centrato su di lei.
Lucretia nutre un profondo interesse scientifico, ma sa di aver bisogno di due cose per raggiungere i suoi scopi: soldi e potere.
In una società capitalista, capisce che il modo migliore per ottenerli è grazie a un business di copertura in un settore redditizio, come quello della moda.
Tutto quel glamour è una facciata.
Mi sono ispirata ad alcuni stilisti, come Alexander McQueen, il cui lavoro ha spesso tratto ispirazione da insetti e altri animali.
Come le sue Armadillo Shoes, acquistate da Lady Gaga?
Esatto, proprio loro! Hai capito di cosa sto parlando!
E poi in letteratura ci sono pochissime "cattive" alle quali è permesso aveve una personalità complessa. Ciò che rende Lucretia la "cattiva" non è la sua intelligenza, o il suo gusto per la moda: è la sua mancanza di empatia o di interesse per il prossimo. Persino per sua figlia.
È una dittatrice, conta solo ciò che brama e poco importa cosa si sacrifica per ottenerlo.
Quando era solo una scienziata era una semplice Lucy Johnson, prima che qualcosa scatenasse la sua rabbia - e sapete bene che non c'è nulla di più temibile di una donna arrabbiata!
Come mai una donna adulta, come antagonista, e non un altro bambino?
Perchè credo che nei miei libri succedano sostanzialmente due cose: i bambini, che hanno la mente aperta e imparano cosa sia il mondo attraverso ciò che li circonda, imparando anche a riconoscere ciò per cui valga la pena lottare, e gli adulti come Lucretia, che hanno già fatto le loro scelte. Poco importa se siano giuste o no.
Se nei prossimi cinquant'anni la situazione climatica degenererà o no dipenderà da ciò che faranno i ragazzi e i bambini di oggi: il futuro è nelle loro mani.
Una curiosità: hai avuto voce in capitolo per quanto riguarda l'aspetto grafico dei tuoi libri - copertine ed illustrazioni all'interno?
Ho il privilegio di poter approvare ogni cosa, e poter dire cosa ne penso, ma non avevo mai sentito parlare di Júlia Sarda - che ha illustrato il primo volume della serie oltre a realizzare le due copertine.
All'inizio avevo proposto tre illustratori che apprezzavo, ma erano impegnati per almeno due anni.
Mi hanno proposto Júlia Sarda, e il suo portfolio era così incredibile da lasciarmi a bocca aperta. Mi ha conquistata subito con la sua edizione spagnola di "Alice nel paese delle meraviglie", e ha fatto un lavoro splendido. Purtroppo ora è troppo famosa, quindi per ils econdo voume ha realizzato solo la copertina, mentre i disegni all'interno sono opera di un altro illustratore che però ne ha mantenuto lo stile dando solo un suo tocco personale.
Ho già potuto vedere la copertina del terzo volume della trilogia, che sarà verde, e l'adoro!
Grazie, grazie, grazie a De Agostini e a M.G. Leonard per questa piacevolissima chiacchierata!
Avete già letto il romanzo? Vi è piaciuto?
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
Oggi il blog ha un'ospite frizzante e divertente, pronta a conquistarvi con la sua simpatia e con il suo romanzo "Il ragazzo degli scarabei", edito De Agostini: M.G. Leonard!
La vita di Darkus fa decisamente schifo. Da quando suo padre è scomparso nel nulla, tutto è andato a rotoli. Darkus si è ritrovato solo, a vivere in una casa che non conosce con uno zio che non sa badare a lui. Come se non bastasse, i vicini sono due tizi a dir poco disgustosi che accumulano montagne di immondizia e di insetti nel cortile. Ed è proprio da lì – precisamente dai pantaloni del signor Humphrey – che Darkus vede spuntare uno scarabeo gigante, il più grande che abbia mai immaginato. Vorrebbe scappare a gambe levate, ma qualcosa lo trattiene: forse gli occhietti simpatici dell’insetto, o forse il desiderio di trovare un amico. Presto Darkus capisce che quella strana creatura è in grado di comunicare con lui, e decide di portarla a casa con sé. Ma un ragazzino può davvero fare amicizia con un insetto? E un insetto può aiutarlo a ritrovare
il padre scomparso? È possibile. Soprattutto se l’unica persona al mondo ad avere notizie del papà di Darkus è Lucretia Cutter, una perfida collezionista di gioielli a forma di scarabeo.
Un romanzo per ragazzi che insegna ad amare qualcosa di piccolo e spesso - possiamo dirlo - non in cima alle comuni preferenze: gli insetti.
Perchè è proprio uno scarabeo il piccolo, grande protagonista di questo romanzo che ha conquistato i lettori inglesi ed è sbarcato in Italia in inverno.
Abbiamo incontrato l'autrice a Tempo di libri, ed ecco cosa ci ha raccontato!
Posso iniziare dicendo che sono terrorizzata dagli insetti, e che quindi la mia prima domanda è. ma perchè proprio uno scarabeo?
Ero spaventata anch'io! Non avevo paura dei topi, per esempio, ma degli insetti, soprattutto dei minuscoli invertebrati... brrrr!
Posti come i giardini delle farfalle per me sono terrificanti: un'amica ha pensato che fosse una buona idea portarmici e mi sono trovata con il cappotto chiuso fino al mento, terrorizzata all'idea che una sola creatura volante mi si posasse addosso.
Capisco la tua posizione! È stata anche la mia per tutta la vita, così com'ero anche spavenatta dalle altezze e credevo che lo sarei stata per tutta la vita.
Ho poi iniziato a scrivere una storia in cui avevo deciso che il"cattivo" - per essere davvero spaventoso - sarebbe stato completamente coperto di insetti e avrebbe vissuto in un posto disgustoso, ma ho realizzato, vergognandomene molto, che avrei dovuto descriverli.
All'inizio pensavo ai ragni, ma ho scoperto che non sono insetti: sono aracnidi.
Lo stesso discorso valeva per i millepiedi: chissà che creature erano!
Ho realizzato di non sapere proprio nulla degli insetti, insomma, e di dovermi informare se non volevo riempire di errori il mio libro e farmi letteralmente ridere dietro da tutti.
Dovevo imparare il più possibile sugli insetti per poterli descrivere al meglio, e una delle creature che dovevo studiare erano gli scarabei.
Ho inserito "scarabeo" su Google - che è come faccio ogni mia ricerca - e ricordo che si è aperta la pagina di Wikipedia in cui ho letto la frase che avrebbe cambiato la mia vita. Diceva che il nome scientifico dello scarabeo è coleottero, ed è dotato di due paia di ali con le quali riesce a volare.
Lì per lì mi sono detta "ma non è vero, gli scarabei non volano! Si limitano a sgattaiolare in giro!", ma poi mi sono convinta che era la mia idea a essere sbagliata.
Non sapevo davvero nulla, nemmeno degli scarabei.
Due lauree, e non sapevo nemmeno cosa fosse uno scarabeo: mi sono sentita molto stupida!
Ho persino messo alla prova le mie amiche, e nemmeno loro sapevano che gli scrabei volassero.
Mi ha fatto riflettere sul fatto che, ehi, se nessuno ne sa nulla, magari non c'è una vera e propria letteratura con gli scarabei come protagonisti. Ed era così!
Ho pensato "ma è fantastico! Ho scoperto qualcosa che non è mai stato fatto! Devo scrivere questo libro!", ma c'erano due problemi: non sapevo niente sugli scarabei, e mi terrorizzavano.
Però devo ammettere che più studiavo e meno mi spaventavano: forse perchè quello che conosciamo ci fa meno paura.
Ho superato l'ultimo scoglio - toccare degli insetti - durante le riprese di un programma dal vivo in cui ero ospite per parlare del mio libro a un pubblico di dieci milioni di ragazzini: il copione prevedeva che toccassi degli insetti, e per farlo ho dovuto lavorare sodo e superare la mia fobia.
Sono riuscita a tenere in mano una tarantola per dieci secondi!
Ora amo gli scarabei al punto da averne alcuni come animali domestici, in un terrario: purtroppo due settimane fa uno di loro è morto. Non vivono molto a lungo, al massimo diciotto mesi ma in media solo tre/quattro.
Credo che proprio per questo il mio romanzo sia così efficace nel parlare ai ragazzi del rapporto con gli insetti: perchè rappresenta anche il mio percorso dalla paura alla conoscenza, e all'apprezzamento.
Non nasci amante degli insetti, ma nemmeno romanziera: eri una produttrice.
Cosa ti ha convinta a dare una svolta simile alla tua carriera?
Non è stata proprio una scelta, perchè io amavo il mio lavoro.
Non avevo però una scelta, in proposito, perchè ormai avevo raggiunto il livello più alto possibile come produttrice. Non potevo più essere promossa, quindi quella posizione era mia fino alla pensione: non è un pensiero stimolante, quello di non poter più crescere.
Quando ho scritto il romanzo non credevo di poter avere successo, soprattutto pensando al fatto che molti dei miei amici scrittori di fatto lavoravano in librerie o come camerieri per mantenersi, dato che con i libri non si diventa facilmente ricchi.
Poi mi è venuta questa idea, ed ero così eccitata mentre ci lavoravo, senza pensare a una possibile pubblicazione. Di sicuro non potevo immaginare un tale successo.
È stato porprio questo successo a portarmi al punto di dover scegliere: tenermi il lavoro sicuro, o buttarmi in questa nuova avventura sapendo di non poter tornare indietro.
Ho potuto prendermi un anno sabbatico, ma al mio ritorno mi sono licenziata, quindi adesso devo per forza riuscire a far funzionare questa cosa della scrittura, perchè ho rinunciato al posto di lavoro migliore che potessi avere: una bella pressione!
Non ho scritto "Il ragazzo degli scarabei" perchè insoddisfatta del mio lavoro o per arricchirmi, ma semplicemente perchè la storia di Darkus mi ha trovata: ora lavorerò sodo perchè tutto vada come deve andare!
Darkus e il suo amico scarabeo si trovano ad affrontare un problema davvero semplice e allo stesso tempo complicato: come comunichi con un animale?
Quanto è stato difficile per te costruire intere scene in cui Darkus dialoga con l'insetto, senza che ci sia un'effettiva risposta?
Per risponderti ti racconto un aneddoto dei miei tempi da produttrice.
In Inghilterra abbiamo avuto un grandissimo successo con una rappresentazione di "War Horse", tratto dal celebre romanzo di Michael Molpurgo - ne hanno anche tratto un film, dopo aver visto la nostra produzione!
Nel romanzo il lettore ha il punto di vista del cavallo, del quale quindi sente i pensieri: in una rappresentazione non riesci a rendere questa cosa, così come non puoi portare un cavallo vero sul palcoscenico. Che fare?
Alla fine abbiamo costruito un enorme cavallo, che richiedeva sei persone per essere manovrato, e la relazione tra il ragazzo e il cavallo si sviluppava tutta grazie all'immaginazione del pubblico: lo vedevi accarezzare il cavallo, che muoveva la testa, e da lì veniva colto l'amore tra i due.
Ho curato questa produzione epr quattro anni, studiando a fondo il linguaggio dei gesti e il potere dell'immaginazione del pubblico, e questo si vede nel mio romanzo: dai movimenti dello scarabeo si capisce ciò che cerca di comunicare a Darkus. È il lettore a cogliere questi gesti, e i bambini sono bravissimi in questo: quando vado nelle scuole lo scarabeo è sempre il personaggio più amato.
Agli adulti interessa Darkus, ma ai bambini piace l'insetto e ne colgono ogni atto gentile.
Alcuni dei comportamenti dello scarabeo mi hanno ricordato quelli dei cani, sai?
Il modo di abbracciare, per esempio.
Non ho cani, ma ho dei gatti: amo gli animali!
E anche in loro si riscontra questo comportamento, in effetti.
Credo che comunque l'unica differenza sia che siamo più portati a dimostrare affetto ai mammiferi piuttosto che agli invertebrati. O agli uccelli: io amo gli uccelli, ma se ne entra uno in casa impazzisco, perchè come faccio a farlo uscire?
Diciamo che tutto sta meglio nel suo giusto ambiente naturale!
L'autrice ci ha mostrato un video in cui il suo personale scarabeo si muove felice sulla copertina di "Beetle Queen", secondo volume della serie! |
Un personaggio davvero peculiare, scienziata ma anche fashion stylist: com'è nata?
Ha un passato da scienziata, ma il suo business è nella moda.
Ho scelto queste due sfaccettature per il suo personaggio perchè Lucretia ha un grande piano, di cui saprete di più leggendo il secondo libro - centrato su di lei.
Lucretia nutre un profondo interesse scientifico, ma sa di aver bisogno di due cose per raggiungere i suoi scopi: soldi e potere.
In una società capitalista, capisce che il modo migliore per ottenerli è grazie a un business di copertura in un settore redditizio, come quello della moda.
Tutto quel glamour è una facciata.
Mi sono ispirata ad alcuni stilisti, come Alexander McQueen, il cui lavoro ha spesso tratto ispirazione da insetti e altri animali.
Come le sue Armadillo Shoes, acquistate da Lady Gaga?
Esatto, proprio loro! Hai capito di cosa sto parlando!
E poi in letteratura ci sono pochissime "cattive" alle quali è permesso aveve una personalità complessa. Ciò che rende Lucretia la "cattiva" non è la sua intelligenza, o il suo gusto per la moda: è la sua mancanza di empatia o di interesse per il prossimo. Persino per sua figlia.
È una dittatrice, conta solo ciò che brama e poco importa cosa si sacrifica per ottenerlo.
Quando era solo una scienziata era una semplice Lucy Johnson, prima che qualcosa scatenasse la sua rabbia - e sapete bene che non c'è nulla di più temibile di una donna arrabbiata!
Come mai una donna adulta, come antagonista, e non un altro bambino?
Perchè credo che nei miei libri succedano sostanzialmente due cose: i bambini, che hanno la mente aperta e imparano cosa sia il mondo attraverso ciò che li circonda, imparando anche a riconoscere ciò per cui valga la pena lottare, e gli adulti come Lucretia, che hanno già fatto le loro scelte. Poco importa se siano giuste o no.
Se nei prossimi cinquant'anni la situazione climatica degenererà o no dipenderà da ciò che faranno i ragazzi e i bambini di oggi: il futuro è nelle loro mani.
Una curiosità: hai avuto voce in capitolo per quanto riguarda l'aspetto grafico dei tuoi libri - copertine ed illustrazioni all'interno?
Ho il privilegio di poter approvare ogni cosa, e poter dire cosa ne penso, ma non avevo mai sentito parlare di Júlia Sarda - che ha illustrato il primo volume della serie oltre a realizzare le due copertine.
All'inizio avevo proposto tre illustratori che apprezzavo, ma erano impegnati per almeno due anni.
Mi hanno proposto Júlia Sarda, e il suo portfolio era così incredibile da lasciarmi a bocca aperta. Mi ha conquistata subito con la sua edizione spagnola di "Alice nel paese delle meraviglie", e ha fatto un lavoro splendido. Purtroppo ora è troppo famosa, quindi per ils econdo voume ha realizzato solo la copertina, mentre i disegni all'interno sono opera di un altro illustratore che però ne ha mantenuto lo stile dando solo un suo tocco personale.
Ho già potuto vedere la copertina del terzo volume della trilogia, che sarà verde, e l'adoro!
Nel tuo romanzo ogni scarabeo ha un potere speciale, ma qual è il vero potere di ogni personaggio?
Quello di Darkus è il talento nell'osservazione: non formula giudizi affrettati ed è una persona che non si butta a capofitto nelle situazioni. Riflette su ciò che vede, e nel mondo reale più rifletti sulle cose, meglio comprendi la realtà che ti circonda.
Virginia, al contrario, tende a non pensare troppo - ed è il personaggio che mi assomiglia di più.
Si butta capofitto nelle situazioni e le piace concludere in fretta ciò che inizia.
Bertolt è invece molto riflessivo e tranquillo, gli piace meditare prima di agire, anche se poi scopriamo questa sua passione segreta per le esplosioni.
Ha una mente scientifica, ingegneristica e matematica, al contrario di Darkus che è più il tipo di persona che analizza i comportamenti altrui.
Parliamo un po' delle tue letture: quanti altri autori di libri per ragazzi leggi, per documentarti o per svago, e quanto spazio lasci ad altri generi letterari?
Da bambina ho letto moltissimo, ed ero abituata ad andare per autore.
Questo è cambiato quando sono cresciuta, e ho perso per un po' il contatto con la letteratura per l'infanzia. Prendi per esempio Harry potter: non ne avevo nemmeno sentito parlare fino all'uscita del terzo libro (è l'anno in cui la serie diventa celebre grazie alla trasposizione cinematografica, ndr), poi ovviamente ho divorato la serie intera.
Le storie che mi influenzano ancora quando scrivo sono quelle lette tra gli 8 e i 12 anni: poco importa che io abbia letto la trilogia Millennium o "L'amore bugiardo", di quei libri pur avendoli apprezzati faccio fatica a ricordare i nomi dei personaggi.
Leggo moltissima literary fiction, strascico dei miei studi, ma se penso a ciò che ho letto e ha influenzato lo sviluppo della mia personalità risalgo per forza a ciò che ho letto a 10 anni.
Per questo voglio scrivere libri per bambini: amo l'idea di poter influenzare positivamente qualcuno, e gli adulti ormai hanno una personalità sviluppata e un'opinione sulle cose che difficilmente riesci a cambiare.
Forse se volessi guadagnare di più scriverei per adulti, ma volendo trasmettere un messaggio - come ad esempio l'importanza degli insetti - il mio pubblico ideale sono bambini e ragazzi.
Sull'importanza degli insetti sono serissima, e il bello è che da un lato noi nemmeno ci rendiamo conto di quanto ne abbiamo bisogno, dall'altro loro non hanno assolutamente bisogno di noi.
Anzi, noi distruggiamo i loro habitat naturali senza pensarci due volte.
Se ci pensi, c'è chi viaggia fino in Africa per riuscire a vedere gli elefanti prima della loro estinzione: se uno scarabeo fosse grande quanto un elefante, sarebbe un animale molto più rilevante.
Quello che spero è che ogni bambino possa poi andare in giardino, scoprire uno scarabeo, prenderlo in mano e dire «Lo so cosa sei! Sei uno scarabeo, hai due paia di ali, voli!» e realizzare di aver imparato qualcosa divertendosi.
Leggo moltissimi libri per ragazzi ancora adesso, soprattutto quelli degli autori che sono anche amici oltre che colleghi, e ho alcuni "autori del cuore" come David Almond e Philip Pullman.
Ultima domanda: se tu fossi uno scarabeo, quale ti piacerebbe poter essere?
Sicuramente un Rainbow Scarab Beetle, che è la specie a cui appartengono i miei. È la specie che vive più a lungo, e ha una corazza iridescente dalle sfumature di colore incredibile.
Hanno anche gusti particolari: ai miei piace la gelatina di fragole!
Avete già letto il romanzo? Vi è piaciuto?
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3