lunedì 24 settembre 2018

«Diffida della scrittura, e abbi fede nella scrittura»: intervista a Pierre Lemaitre

Da poco in libreria con l'atteso I colori dell'incendio (Mondadori), Pierre Lemaitre aggiunge un secondo tassello alla trilogia aperta dal suo Ci rivediamo lassù, che gli è valso il Premio Goncourt nel 2013.
La Parigi degli anni Trenta, l'Europa che avanza inesorabile verso un nuovo conflitto mondiale, una donna che scopre dentro di sè la forza di rendere straordinaria la sua vita ordinaria.
Di questo, di scrittura e di modelli letterari abbiamo parlato insieme a Pierre Lemaitre in occasione del suo passaggio a Milano.


Impossibile non iniziare proprio da Madelaine, dal suo percorso e dalla sua vendetta.
Madelaine è una donna del suo tempo, privilegiata come tante e con le idee proprie della sua epoca. Ha accettato la sua condizione senza discutere.
È una donna comune, e questo per un romanziere è positivo, perchè ha un margine di sviluppo e progresso importanti. È più facile creare un personaggio straordinario partendo da una donna comune, mentre partendo da una donna già straordinaria… che farne?
È una fortuna iniziare con un personaggio alquanto banale.
La mia scelta di Madelaine come protagonista è stata dettata dalla conclusione di Ci rivediamo lassù, e non mi sono ispirato a personalità reali.
Forse, a ispirarmi è stata l’attrice che, nel film tratto dal romanzo precedente, interpreta Madelaine e che ho avuto modo di vedere sul set: ho bisogno di immaginare l’aspetto dei miei personaggi nel dettaglio, e sicuramente vederla ha imposto nella mia immaginazione questo particolare aspetto per Madelaine.

Donna del suo tempo, e che tempo! Un’epoca caratterizzata dalla freddezza, forse, e dalla cupidigia che ritroviamo anche nella nostra.
È un periodo grigio, questo sì. Ma credo che dal punto di vista delle emozioni non ci fosse freddezza, e che venissero vissute appieno: si innamoravano, si odiavano.
È anche un periodo dominato dall’incertezza: cosa diventerà l’Europa? Cosa diventerà la Francia? In quale direzione stiamo andando?
Colpisce il fatto che alla fine del primo conflitto mondiale tutti sapessero in che direzione si stesse andando, e il pensiero dominante fosse “mai più una guerra come questa”. Ed è esattamente questa volontà a determinare il nuovo conflitto.
È un’epoca di incertezza, e ho voluto scrivere un romanzo sull’incertezza.

Nei suoi romanzi, soprattutto in “Ci rivediamo lassù” e in “I colori dell’incendio”, ho trovato spesso dei paradossi positivi: pensiamo a Paul, che crediamo morto nelle prime pagine e condannato a  una vita da infelice in quelle immediatamente successive, e che invece diventerà una figura di spicco, e un vero e proprio genio del marketing - proprio lui, che rischiava di non riuscire a comunicare! È stata solo una mia impressione?
No, anzi, ha ragione!
Questo romanzo è stato concepito come una variazione sul tema della resilienza.
Ci sono molti personaggi che riusciranno ad avere successo nonostante le avversità.
La riuscita di Paul è una di queste figure della resilienza, che ritroviamo anche in Madelaine, in Vladi, in Solange.
Se con le mie donne ho voluto dare un ritratto il più completo possibile della condizione femminile negli anni Trenta, con queste quattro figure ho voluto esplorare il tema della resilienza.

I colori dell’incendio è il secondo volume di una trilogia, ma vista la complessità del romanzo (e del precedente), era quest il suo progetto sin dall’inizio? O è qualcosa che è venuto dopo?
L’idea di una trilogia è nata quando ho iniziato a riflettere sulla possibilità di dare un seguito a Ci rivediamo lassù. Solo chiedendomi che tipo di seguito volessi dargli, ho capito che una trilogia mi avrebbe permesso di realizzare una sorta di fotografia del periodo tra le due guerre.
Mi rendo conto di creare storie complicate, e io stesso sono preso dal panico di fronte a esse.
Da storie complicate nascono romanzi complicati, e il mio lavoro consiste nel renderle di facile comprensione per il lettore. La soluzione sarebbe scegliere storie semplici, ma non ne sono capace.


Pensando alla complessità dei suoi lavori, quando inizia a scrivere una storia sa già cosa accadrà, e quanto nel dettaglio? Molti autori dichiarano di farsi guidare dai loro personaggi, è così anche per lei?
Il personaggio non mi parla, anzi. Il capo sono io, e sono io a decidere cosa il personaggio faccia.
Ma capisco il motivo della domanda: ho letto anch’io, in un’intervista a Fred Vargas, che “i personaggi sfuggono di mano”, ma per me non è possibile.
Questo perchè il personaggio è lo strumento di una storia: io so dove va la mia storia, e il mio lavoro è fare in modo che le azioni dei personaggi raccontino quella storia. Non un’altra.
Se mi sfuggissero di mano, non saprei più che storia stiamo raccontando.

Ho due massime: diffida della scrittura, e abbi fede nella scrittura.
Diffida della scrittura, ovvero non cominciare a scrivere un libro se non ne conosci bene la trama. Altrimenti non sai che libro scriverai, e non padroneggerai l’argomento. Non bisogna pensare che la scrittura faccia il lavoro al posto dell’autore. Devo conoscere almeno la scena di apertura, il finale e gi eventi principali: la colonna vertebrale del romanzo, insomma.
Abbi fede nella scrittura, perchè non puoi prevedere un piano troppo dettagliato. Se ci sono dei vuoti, puoi fare affidamento sulla scrittura per fare emergere elementi inaspettati che ti sorprenderanno.
Bisogna trovare il giusto equilibrio tra preparazione della struttura e scrittura.

Parlando dei suoi personaggi, non è assolutamente clemente nei loro confronti.
Ho la reputazione di essere molto cattivo nei confronti dei miei personaggi, ed è una reputazione che merito. Se ne facessi economia, se non facessi accadere loro nulla di troppo doloroso o difficile da superare, non sarebbe possibile ai lettori identificarsi in loro, e provare empatia nei loro confronti.

A tratti la voce narrante sembra strizzare l’occhio al lettore, meccanismo che troviamo spesso nella letteratura francese “classica”. 
Adoravo il momento in cui, nei grandi romanzi francesi dell’Ottocento, l’autore coinvolgeva i lettori.
Alexandre Dumas diceva, ad esempio, «il lettore ricorderà senz’altro che…».
Questo libro è anche un omaggio alla letteratura francese del XIX secolo, e ne riprende qualche piccolo espediente.
Da un altro lato, sono un autore che potrebbe essere definito brechtiano. Bertolt Brecht diceva «io metto in scena il teatro ma voglio che il pubblico si ricordi sempre di essere a teatro. Non voglio che se ne dimentichi, perchè dimenticando la propria condizione ci si fa imbrogliare dal sistema.» Voleva spettatori lucidi e consapevoli della loro condizione.
Allo stesso modo voglio che i miei lettori siano consapevoli che quella che stanno leggendo è solo una storia, e che non devono credere che sia reale. Non voglio imbrogliarli.

In un’intervista ha dichiarato che, in Francia, solo tre cose ti cambiano radicalmente la vita: il colpo di fulmine, l’infarto e vincere il premio Goncourt.
Com’è stato rimettere mano a una storia che le ha dato così tanto, e questo successo ha cambiato il suo modo di scrivere?
Colpo di fulmine fatto, il premio Goncourt l’ho vinto, quindi ora aspetto l’infarto!
Devo stare attento!
È vero, dopo il successo di Ci rivediamo lassù non è stato facile rimettermi a scrivere.
Credo che tutti gli autori di successo vivano questa condizione di confusione, in cui ci si chiede se si ha ancora qualcosa da dire, se si perderanno lettori, se si riusciranno a pagare le tasse.
Al tempo stesso, auguro a tutti un successo come il mio, perchè le paure “del dopo” sono paure da ricchi, da persona privilegiata.
Detto questo, ci vuole tempo per digerire il successo e un pizzico di coraggio per rimettersi al lavoro!

Grazie a Mondadori e a Pierre Lemaitre per la splendida opportunità di confronto.
La recensione di I colori dell'incendio di Pierre Lemaitre (Mondadori) è disponibile qui.

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