Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
In occasione dell'uscita di "Il buio al crocevia", Elliot Ackerman (ricordate "Prima che torni la pioggia"?) ha incontrato noi blogger a Milano grazie a Longanesi:
È notte quando Haris Abadi si ritrova all’improvviso disteso per terra, a respirare polvere e fango, mentre mani sconosciute gli sfilano di tasca tutto, soldi, cartina, passaporto. Cittadino americano di origine irachena, con alle spalle una triste storia famigliare, Haris si trova in Turchia per attraversare il confine siriano e unirsi alla lotta contro il regime di Bashar al-Assad. Derubato di tutto, si vede quasi costretto a rinunciare all’impresa quando incontra Amir, un rifugiato siriano ed ex rivoluzionario che gli offre ospitalità e aiuto. Amir è sposato con Daphne, una donna di grande fascino ma incapace di nascondere come vorrebbe le sue inquietudini. Haris capisce subito che anche Daphne desidera disperatamente raggiungere la Siria. Ma questa consapevolezza porterà con sé nuovi, angoscianti dubbi: da che parte vuole davvero schierarsi, quella donna? Sarà possibile per entrambi ridare senso a una vita così sofferta?
Scritto con grande partecipazione e la consapevolezza di chi conosce profondamente il conflitto che racconta, "Il buio al crocevia" è un viaggio tra miserie umane e inattese opportunità, nel cuore oscuro di una guerra dove l’amore e l’orrore sembrano sorgere dalla stessa radice.
"Prima che torni la pioggia" mi era piaciuto moltissimo, ma non ero pronta a emozionarmi così tanto con "Il buio al crocevia". Non ero pronta a sentire sulla pelle l'orrore e la paura di chi vive in un paese dilaniato da una guerra civile che sembra senza fine, e che non lascerà vincitori ma solo macerie.
Ero però pronta a incontrare la penna e l'uomo dietro al romanzo, ed ecco cosa ci ha raccontato durante un aperitivo da "Fioraio Bianchi" a Milano:
Non si può non partire da Haris: all'inizio è molto difficile per il lettore credere che un uomo con i suoi trascorsi rischi così tanto per oltrepassare il confine siriano e unirsi alle forze della rivoluzione.
Credo che ci sia qualcosa di seducente, per l'uomo, nella guerra.
Qualcosa che attira.
Haris è consapevole di aver combattutto in una guerra che ritiene una guerra "cattiva", e ora vuole unirsi a coloro che invece lottano per una causa in cui sente di poter investire economicamente.
Sentiva già da prima il bisogno di combattere, e nonostante questo ha voluto fare un tentativo e vivere negli Stati Uniti. Lì però gli sembrava che la sua vita non avesse significato.
Ha lavorato molto per portare in salvo in America anche la sorella, ma quando lei si allontana non gli resta nulla, ed è un'ulteriore spinta per tornare a combattere.
La guerra richiama anche i giornalisti: in molti hanno ammesso di non riuscire a smettere di fare i corrispondenti di guerra, neanche provandoci, e ci sono effettivamente persone che dopo aver vissuto l'Afghanistan e tutto ciò che ha comportato si sono poi trovate a combattere in Siria.
Haris in questo senso nasce da qui, da questo fenomeno che stavo osservando.
Il richiamo della guerra lo ritroviamo anche in un episodio molto celebre dell'Odissea, quello delle sirene: il canto seducente delle sirene parla di guerra, e di gloria conquistata combattendo.
Nel tuo romanzo, e nei tuoi personaggi, troviamo qualcosa che non ci aspetteremmo: una grande, grandissima speranza. Daphne concentra tutta la sua fede e la sua capacità di sperare nel provare a ritrovare la figlia mai ritrovata dopo un'esplosione, Haris invece nella lotta per trovare il suo scopo e il suo posto nel mondo.
Però una guerra è sempre una guerra, e come tale porta inevitabilmente dolore e distruzione: come si conciliano le due cose?
È vero, uno dei temi centrali di "Il buio al crocevia" è proprio questo.
I miei personaggi rappresentano queste due tendenze agli antipodi: meglio continuare a sperare nonostante tutto, come fa Daphne, o accettare di aver perso ciò che si è perso e andare avanti?
In particolar modo, quando si guarda ad Amir e a Daphne, si vede che rappresentano appieno questo conflitto, che è lo stesso vissuto da moltissimi siriani che si sono dati anima e corpo alla rivoluzione, sognando di poter fare la differenza, e che si sono trovati con famiglie distrutte e un paese ridotto in macerie. Eppure, molti di loro non riescono a smettere di combattere e di dire che la rivoluzione avrà successo, che funzionerà, anche se tutto dice il contrario.
Daphne è l'emblema della speranza nel romanzo, ma va detto che è anche la persona che ha vissuto meno la guerra: per Amir e Haris è stato diverso.
Può essere che il suo non avere avuto un'esperienza diretta e devastante con il combattimento, il suo non avere ricordi al riguardo, sia ciò che le permette di sperare ancora?
Quando incontriamo Haris, è una persona persa: non sa cosa sta cercando, sa solo di essere in cerca di qualcosa. Poi incontra Daphne ed Amir, e inizia a pensare che forse sia questo, che sta cercando.
Comprendo il motivo per cui Daphne continua a sperare di ritrovare la figlia: non ha visto il corpo, non l'ha vista morire. Non può avere pace fino a quando non lo avrà visto, ha bisogno di una chiusura.
Devo dire che l'idea di Haris di una "causa" è molto generica, e la sua ricerca di fatto va avanti proprio fino alle ultime pagine del libro.
E sempre dalle ultime pagine del libro - senza svelare il finale - azzarderei che forse, uno dei messaggi che hai voluto trasmettere è quello della necessità delle persone, in tempo di guerra, di avvicinarsi l'un l'altra. Per Haris e Daphne, e prima per Haris e sua sorella, in fondo è così.
Di sicuro nello stare accanto a chi si ama e nel proteggerlo si trova uno scopo, in tempo di guerra, e la guerra stessa aggiunge significato alle relazioni umane.
È ciò che manca della guerra a chi ci vive a contatto per molto tempo e poi se ne distacca: di certo non gli mancano i bombardamenti o la paura, ma l'intensità dei rapporti umani sì.
Considerate le tue esperienze personali, quanto di te - e di aneddoti che ti sono stati raccontati - è finito in "Il buio al crocevia", e quanto è mera invenzione?
La storia e in particolar modo gli eventi che vediamo succedersi nella vita dei personaggi sono opera d'invenzione. Non conosco una Daphne, o un Amir, o un Haris. Ho però incontrato persone ( e miconsidero una di loro) che hanno vissuto simili esperienze emozionalmente sconvolgenti, ed era questo viaggio, questo percorso che volevo raccontare al lettore.
Restando in tema scrittura: le tue storie emozionano moltissimo il lettore, e immagino emozionino anche te durante la stesura. Come si fa a mantenere in equilibrio la necassità di rispettare delle scadenze, e dall'altra il fatto di lasciarsi guidare dall'emozione?
Ammetto di non pensare molto alle scadenze quando scrivo, e per fortuna non ne avevo una quando ho scritto "Il buio al crocevia".
Di fatto, io mi alzo al mattino, vado a sedermi in un caffè e scrivo. Provo a farlo ogni giorno.
Credo inoltre che ogni romanzo abbia quella che è la scena che dà origine al tutto: per me stavolta si trattava di prendere quella scena e trarne un articolo, ma una volta scritta ho avuto voglia di vedere cosa fosse accaduto prima, cosa sarebbe potuto accadere dopo, ed ho iniziato a lavorare a un romanzo.
Da soldato, come si diventa scrittori? E soprattutto, dà la stessa sensazione di avere uno scopo e di stare facendo la differenza per qualcuno?
Credo che mi faccia sentire come se stessi facendo il mio dovere, e se ci pensiamo c'è una lunga tradizione di uomini d'armi diventati poi scrittori.
C'è circa una dozzina di autori americani in libreria in questo momento che, a un certo punto della loro vita, hanno combattuto in Iraq.
Per quanto riguarda me, mia madre era un'autrice, e sono cresciuto in mezzo ai libri.
Una parte di me ha sempre saputo che un giorno avrei scritto, e ora che è così mi viene molto naturale.
Una curiosità personale: quando pensi influirà il clima di odio e intolleranza di oggi sui giovani e sui soldati di domani, sul loro modo di vedere questi paesi e queste culture, e quanto dobbiamo preoccuparci?
Ho due figli piccoli, e posso dirti che vedo già gli effetti della profonda rottura che attraversa gli Stati Uniti al momento. Stanno crescendo in un momento in cui chi li circonda si dice a vicenda " tu mi disgusti, tu qui non ci devi stare", e vedo quanto loro internalizzino l'odio che li circonda, pur essendo molto piccoli.
Mi preoccupa moltissimo, anche se penso che Trump sia solo un sintomo della malattia di cui soffrono gli Stati uniti al momento. Mi preoccupa anche pensare a ciò che potrebbe accadere tra quattro anni, perchè passare da un estremismo all'altro è pericoloso.
In questo senso, quanto la letteratura e le arti possono essere un mezzo di comunicazione valido per superare gli estremismi, e quanto possono aiutarci a vedere che chi ci circonda è esattamente come noi?
Penso anch'io che come esseri umani abbiamo in comune più di quanto ci differenzia, e sì, questo è ciò che l'arte in ogni sua forma riesce a fare: riesce a farci provare la stessa emozione provata da qualcun altro. Un regista, un romanziere, uno scultore trasmettono a chi vedrà la loro opera le proprie emozioni.
Il fatto stesso di provare un'identica emozione di fronte a qualcosa ci avvicina e ci ricorda di essere uguali: siamo qui, siamo umani, e davanti alla medesima opera proviamo le stesse sensazioni.
In un momento in cui i giornalisti sono più impegnati a urlarsi addosso, un romanziere riesce a coinvolgere e a emozionare il lettore, facendo così arrivare a destinazione quello che può anche essere un messaggio importante.
Restiamo un attimo sugli Stati Uniti: quanto il tuo aver vissuto a Istanbul ha influenzato la tua opinione sulle politiche internazionali americane? Vivere altrove, fa la differenza?
Io sono cresciuto a Londra, quindi credo di avere il gene dell'espatriato nel sangue.
Ma vivere altrove, anche se non cambia la tua prospettiva a 180°, cambia sicuramente il tuo modo di percepire l'operato del tuo paese.
Aggiungo che spesso gli americani, quando viaggiano, realizzano di non essere particolarmente amati all'estero, e se ne stupiscono: perchè mai non dovrebbero amarli tutti?
Non sono sempre d'accordo con i motivi del disappunto, ma li comprendo: sono orgoglioso del mio paese, ma è impossibile negare che le fondamenta per non amarci incondizionatamente ci sono.
Una riflessione personale: il clima d'odio di cui parli esiste anche qui, in Italia.
Anzi, abbiamo un grosso problema legato alla mala informazione: abbiamo giornalisti che, in televisione e ospitati da programmi seguiti dalla fascia di popolazione che comprende il maggior numero di elettori, si permettono di dire che il Corano dice ai fedeli di fare attentati terroristici.
Chiunque lo abbia letto sa che questo non è vero, ma quasi nessuno in Italia lo ha letto.
Non sarebbe forse importante partire proprio da questo, e istruirci maggiormente sulla cultura e le tradizioni di chi ormai vive qui con noi, anche da più di una generazione?
In questo senso non si tratta di dover andare fino in Siria, ma di capire meglio le usanze e il pensiero di chi molto probabilmente è il nostro vicino di casa.
Assolutamente! Una delle grandi componenti della "malattia dell'odio" di cui parlavamo prima è la paura, la paura di chi è diverso e non riesci a comprendere.
Un mio amico di nazionalità turca, giornalista politico, mi ha fatto notare, una volta, che potremmo definire la politica come l'acquisizione e il mantenimento del potere, e ci sono due modi per farlo: unire le persone, molto più difficile (un esempio è stata la camoagna di Barack Obama nel 2008), oppure dividerle. Molto, molto più semplice. E il modo più rapido per dividere le persone è far sì che una parte di loro tema la parte restante. È questo che sta succedendo in America, ma anche qui in Italia.
È stato davvero emozionante incontrare l'autore di due romanzi che mi hanno ridotta a un bagno di lacrime (ehm...) e che, soprattutto, mi hanno toccata nel profondo.
Elliot Ackerman va assolutamente letto, soprattutto oggi.
Qui trovate il mio scatto del romanzo su Instagram, che spero vi piaccia ;)
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
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