Chiara Marchelli è per molti l'autrice de Le notti blu (Giulio Perrone Editore), uscito nel 2017 e apprezzato da pubblico e critica, tanto da arrivare nella dozzina del Premio Strega.
L'autrice torna in libreria con La memoria della cenere (NN Editore), e con la storia di Elena, scrittrice capace di leggere le storie sui volti delle persone. Una notte, un aneurisma la colpisce nella sua casa di New York. La donna sopravvive, e insieme a Patrick decide di trasferirsi in Francia, nell'Auvergne, in un paesino ai piedi del vulcano Puy de Lúg: qui, durante la convalescenza, la mente di Elena arde di pensieri, di memorie interrotte, di sentimenti riscoperti, di attese e incertezze, come il magma che ribolle sottoterra, a pochi chilometri da lei. Quando i genitori vengono a trovarla per un breve soggiorno, il loro arrivo coincide con un'improvvisa eruzione del vulcano.
Così, mentre una colonna di fumo, cenere e lava inizia a uscire dalla bocca del Puy de Lúg, i protagonisti si trovano bloccati tra le mura di casa, in un tempo sospeso che sovverte ruoli e sicurezze, paure e desideri.
La prima impressione, leggendo La memoria della cenere, è che sia scritto da una persona molto sicura di sè e della sua scrittura. Visto che in un'intervista ha invece parlato di sè come di una persona irrequieta, la mia domanda è questa: da dove viene in questa vita apparentemente irrequieta la capacità di scrivere storie solide come questa?
Non credo che l'irrequietezza e quella che tu chiami sicurezza della penna non possano stare insieme, perché l'irrequietezza è quella del vivere quotidiano, come uno si sente nel mondo, che posizione pensa di occupare, il luogo in cui decide di restare, se decide di cambiare il posto in cui vivere. Quella che tu chiami sicurezza può essere perfettamente compatibile con un modo di essere di questo tipo, perché là dove forse uno si sente meno robusto, meno radicato, meno concreto, ha bisogno di costruirsi da qualche altra parte in un modo più completo per sé.
In senso generale penso di poterti rispondere così. Per quanto mi riguarda, da un certo punto in avanti ho cercato i luoghi o il luogo che potesse riaccogliermi, darmi radici, identità, un senso di casa. Ho cercato in vari posti, partendo appena possibile, studiando in altre città, spostandomi anche un po' in Italia e poi all'estero. Ma nel frattempo si andava costruendo anche la mia personalità come donna e come scrittrice: credo di avere costruito una coerenza proprio nella scrittura.
Ho cominciato molto presto a scrivere: ho sempre saputo di volerlo fare, anche se non come, perché il come viene facendo, però forse è l'unica parte di me che non è mai stata messa in discussione.
Quindi in questo modo immagino che si sia costruita una certa solidità.
Quanto poi all'avere davvero una buona penna, quello è il lavoro di una vita. Mi sono sempre detta che la mia massima ambizione era quella di diventare la migliore scrittrice che avrei potuto essere, ma dietro c'è un lavoro molto serio. Non si tratta solo di essere ispirati, il lavoro dietro è fondamentale. Ho anche costruito attorno a me un mondo che mi permettesse di avere sempre il tempo e la concentrazione per scrivere: la scrittura sempre al primo posto, e tutto il resto è secondario.
Pensando al concetto di felicità: la sua irrequietezza è condizione indispensabile per essere felice?
Non credo che muoversi sia propedeutico ad essere felici. Credo che la felicità non sia una condizione statica ma un'onda, perché è un'emozione, un sentimento. Una spinta, un'energia.
Invidio molto chi sa stare fermo, chi ha radici solide e non ha nessun bisogno di andarsene dall'altra parte del mondo per stare bene. Ora ho risolto questa cosa, ma ci sono stati dei momenti anni fa in cui per me non era facile partire, anche se essendo irrequieta per me non è stata una scelta.
Penso che ognuno trovi il proprio modo di stare bene nel mondo, da fermo o un movimento.
Non sento la felicità come una condizione precisa, con un inizio e una fine.
Di questo romanzo colpiscono due cose: la descrizione delle sensazioni legate alla malattia della protagonista - da qui la curiosità di sapere come si è documentata per raccontare così bene quest'esperienza - e la scelta di collocare l'eruzione id un vulcano in una zona della Francia che è sì di origine vulcanica, ma dove non ci sono eruzioni da mille anni.
Per raccontare l'aneurisma ho fatto moltissima ricerca. M'interessava una malattia che colpisse il cervello e la mente, fondamentale per la protagonista che da lì genera il proprio mestiere. Sono partita da Internet, andando a leggere articoli via via sempre più specifici, fino a trovare qualche specialista (in questo caso la neurologa che ringrazio alla fine del libro) che bombardo di domande.
Immagino poi il resto, come fa qualsiasi scrittore che parli di qualcosa che non lo riguardi direttamente. Penso che sia un po' compito dello scrittore il fatto di non parlare solamente di se stesso, ma di entrare in uno stato di ascolto/osservazione/empatia dell'altro fino a diventare un po' l'altro. Si rischia di diventare un po' camaleontici facendo questo mestiere, ma penso che sia fondamentale porsi dentro la vita di un altro: se ci riesco, è un bene.
Sto anche attenta a fare domande precise e giuste a chi magari soffre.
Non ho conosciuto direttamente persone che hanno avuto un aneurisma, ma ho parlato con amiche che hanno avuto parenti che l'hanno subito.
I vulcani francesi sono in effetti in stato di quiescenza.
Volevo inventarmi qualcosa e il vulcano mi è venuto in mente perché mi sembrava forte, perché si accompagnava al processo magmatico, al movimento che sta dentro la protagonista, che da uno stato orizzontale di impotenza torna alla vita in un modo impetuoso, in questo luogo chiuso in cui saltano tutti i rapporti.
Ho avuto un attimo d'incertezza all'inizio, immaginando che inventare un luogo non funzionasse: ne ho parlato con i miei agenti e anche per loro era difficile ambientare una storia in un posto che non esiste, ma per me ormai quel posto esisteva e ho provato a fare questa scommessa.
Fare eruttare un vulcano in una regione vulcanica.
Un amico mi ha detto che ho avuto una tempistica perfetta, perché da quando ho finito il romanzo si sono mossi vulcani ovunque, per cui non è detto che non possa succedere qualcosa persino nell'Auvergne.
Far succedere qualcosa in un luogo che non esiste è una delle invenzioni narrative che possono permettersi gli scrittori.
Ha creato un parallelismo interessante tra aneurisma e vulcano: sono entrambe cose pericolose quando esplodono. Appaiono qui come una duplice immagine dello stesso concetto: un'esplosione che va a coprire tutto quello che c'era prima, e che rende necessario poi andare a vedere cosa resti e come prosegua la vita da quel momento in avanti. Ha lavorato anche su questo, o è venuto dopo?
Il lettore spesso rivela allo scrittore anche quello che lo scrittore non aveva capito di stare facendo.
Sì, tanto che a un certo punto del libro faccio dire a Elena che le è scoppiata la testa mentre il vulcano erutta. C'è questo collegamento che hai visto, ma è venuto dopo.
M'interessava l'idea del magma, tanto che per me in lavorazione "Magma" era il titolo.
Avevo più o meno idea di dove sarebbe finita la storia, però non così precisa.
Certe cose e certi rapporti si delineano solo mentre scrivi. Le due esplosioni hanno iniziato ad assomigliarsi sempre più da un certo punto in avanti: non sono casuali ma all'inizio non avevo pensato a questo rapporto diretto tra le due cose.
Mi piace pensare di scrivere in un modo organico, per cui mettere un vulcano a qualcosa deve servire: serve a riunire queste persone in una casa e farle parlare, discutere e lottare, ma serve anche a fare quello che ho fatto anche in Le notti blu, un parallelismo tra la natura e noi.
Se non si era delineato nelle mie intenzioni all'inizio si è poi declinato senz'altro in questo modo.
Anche nel romanzo precedente c'è questo sviscerare le dinamiche familiari, con un'attenzione particolare al concetto stesso di essere figlio.
Sì, soprattutto perché io sono figlia ma non sono madre. Ne Le notti blu il racconto è dal punto di vista del padre, quindi c'è un forte senso di famiglia, di appartenenza, di rapporti padri-figli, madri-figlie. In questo libro è forte l'identità di Elena in quanto figlia, perché quello è , è sempre stata e da un certo momento in poi desidererebbe pure tornare a essere.
Succede di faticare a costruirsi un'identità fuori nel mondo, magari lontano, e poi succedono tante cose e a un certo punto vorresti smettere, fermarti.
È la prima volta che scrivo un romanzo in prima persona da un punto di vista femminile: Elena è una donna, è andata via ma è rimasta in divenire, sta ancora diventando.
È compagna ma non è madre.
Cosa significa per Chiara Marchelli ricominciare?
È una necessità che ha sentito personalmente nella vita?
Continuamente, e per fortuna! Il ricominciare della protagonista non è il mio, perché quello che succede a lei non è successo a me, però credo che ci siano continuamente nella vita di tutti dei bivii per cui prendi una direzione, e nel momento in cui fai una scelta ne escludi un'altra. Forse ogni scelta è una cosa nuova. Anche se provi a restare nel tuo poi arriva la vita a far succedere cose per cui ti tocca ricominciare.
Per quanto mi riguarda, credo di essere in una fase per cui ho voglia di una svolta profonda, di un cambiamento di vita e forse è questo un po' l'aspetto autobiografico del romanzo.
A febbraio saranno vent'anni che vivo a New York, che è la città in cui ho vissuto più a lungo in tutta la mia vita. Non è la prima volta che mi succede, da scrittrice, di anticipare sulla carta quello che vorrei far accadere nella vita. Poi ovviamente drammatizzo, perché mi auguro di non dover cambiare dopo un aneurisma, ma è l'irrequietezza di cui si parlava anche all'inizio: dopo un po' mi annoio e ho bisogno di cambiamenti, magari anche soltanto di stimoli. Per me il nuovo è anche tanto nelle piccole cose, per cui alla fine è difficile che mi annoi veramente. Al di là del macrocosmo della scelta del dove stare e cosa fare, probabilmente adesso ho voglia di fare qualcosa di diverso.
In che modo la ricerca di rinnovamento e di stimoli va di pari passo con un recupero del passato, che poi è una grande ricchezza, non solo dolore e nostalgia?
Penso che la spinta in avanti, ma con un occhio su chi siamo, cosa ci ha formato e come siamo diventati oggi, sia un connubio fondamentale nella costruzione di un'identità rotonda, perché la spinta verso il futuro negando il passato potrebbe essere una fuga. L'occhio soltanto sul passato potrebbe essere un atteggiamento poco sano nei confronti della vita che in ogni caso procede.
In questo libro entrambe le cose sono molto calcate perché si tratta di una persona che ha rischiato di morire, quindi tutto quanto diventa più netto e più importante. Soprattutto se, come nel caso dell'aneurisma, sei costretto a stare fermo in un tempo verticale in cui tu non puoi che scendere dentro di te, e non puoi procedere andando solo avanti. È impossibile fare i conti con se stessi senza ricordare ciò che si è, è semplicemente l'essere vivi.
In questo romanzo c'è spazio anche per delle riflessioni sul ruolo dello scrittore, partendo dal personaggio di Bruno e dal suo dire alla protagonista - parafrasando - che gli scrittori trattano male loro stessi e anche le altre persone, considerandole tutte uguali.
Questo pensiero è nato a monte, o è stato influenzato dal personaggio? È lei ad influenzare i suoi personaggi, o avviene spesso il contrario?
Sono uno di quegli scrittori che vive col filtro della scrittura davanti. Vivo intensamente le emozioni, in modo onesto e sincero, ma penso anche "questo potrei usarlo per una storia" nel senso migliore del termine: usarlo nel senso di trascriverlo, riportarlo, perché quella dopotutto è la mia voce e ho bisogno della penna per esprimerla pienamente.
I personaggi non sono altro che la traduzione in una trama e dentro una storia delle persone, della natura umana. Quello che faccio è osservare e riportare quello che mi ha colpito e che ho voglia di raccontare. Non ci sono distanza, prevaricazione od ordine di apparizione tra me e quello che scrivo: molto spesso c'è una storia che m'interessa scrivere, ed è lei che comanda.
Però ci sono anche momenti della scrittura in cui voglio esprimere qualcosa che è mio, e lo faccio passare attraverso un personaggio. In questo caso comando io, ma è un'armonia, uno scambio continuo tra me e quello che sta fuori da me: l'osservazione, l'assorbimento dell'altro, l'identificazione. Mi è difficile separare i momenti.
È un modo molto intimo di stare dentro quello che scrivo, anche se non ho allucinazioni e non parlo con i miei personaggi.
Quali sono le sue aspettative nei confronti della critica e del pubblico per questo libro, dopo il grande successo de Le notti blu?
Nessuna. Ho moltissime speranze: spero che piaccia tantissimo e a tutti, ma non ho aspettative.
Scrivo veramente da tanto tempo: il primo romanzo che ho spedito a un editore l'ho finito a diciassette anni e quest'anno ne compio quarantasette. Sono tanti anni che scrivo e che provo a essere pubblicata. Ho pubblicato il primo romanzo a trent'anni, per poi scriverne altri due ed avere un vuoto di sette anni: molti, per questo, sono convinti che Le notti blu sia il mio primo libro.
In quei sette anni ho ricevuto molti rifiuti, per cui ho acquisito un vivissimo senso del concreto, anche se ovviamente sarei disonesta se dicessi che non m'interessa che il libro vada bene!
La memoria della cenere di Chiara Marchelli (NN Editore) è in libreria dal 24 gennaio, al prezzo di copertina di 18€.
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