venerdì 20 ottobre 2017

Chiacchierata con Fabio Genovesi su "Il mare dove non si tocca", il mare e la nostalgia

Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Oggi il blog ha un'ospite davvero speciale: Fabio Genovesi, autore di "Il mare dove non si tocca", edito Mondadori (rilegato a 19€):
Fabio ha sei anni, due genitori e una decina di nonni. Sì, perché è l'unico bimbo della famiglia Mancini, e i tanti fratelli del suo vero nonno - uomini impetuosi e pericolosamente eccentrici - se lo contendono per trascinarlo nelle loro mille imprese, tra caccia, pesca e altre attività assai poco fanciullesche. Così Fabio cresce senza frequentare i suoi coetanei, e il primo giorno di scuola sarà per lui un concentrato di sorprese sconvolgenti: è incredibile, ma nel mondo esistono altri bambini della sua età, che hanno tanti amici e pochissimi nonni, e si divertono tra loro con giochi misteriosi dai nomi assurdi - nascondino, rubabandiera, moscacieca. Ma la scoperta più allarmante è che sulla sua famiglia grava una terribile maledizione: tutti i maschi che arrivano a quarant'anni senza sposarsi impazziscono. I suoi tanti nonni strambi sono lì a testimoniarlo. Per fortuna accanto a lui c'è anche un padre affettuoso, che non parla mai ma con le mani sa aggiustare le cose rotte del mondo. E poi la mamma, intenzionata a proteggere Fabio dalle delusioni della vita, una nonna che comanda tutti e una ragazzina molto saggia che va in giro travestita da coccinella. Una famiglia caotica e gigantesca che pare invincibile, finché qualcosa di totalmente inatteso la travolge. Giorno dopo giorno, dalle scuole elementari fino alle medie, il protagonista cerca di crescere nel precario equilibrio tra un mondo privato pieno di avventure e smisurato come l'immaginazione, e il mondo là fuori, stretto da troppe regole e dominato dalla legge del più forte. Tra inciampi clamorosi, amori improvvisi e incontri straordinari, in un percorso di formazione rocambolesco, commovente e stralunato, Fabio capirà che le nostre stranezze sono il tesoro che ci rende unici e intanto scoprirà la propria vocazione di narratore perdutamente innamorato della vita.

Abbiamo incontrato Fabio Genovesi da Punto & Zeta, ed ecco cosa ci ha raccontato su "Il mare dove non si tocca"!

Partiamo da ciò che colpisce di più in questo libro: la credibilità del linguaggio. Che tipo di lavoro hai fatto per riuscire a rendere così bene il linguaggio di un bambino come Fabio?
Questa è stata la mia prima preoccupazione. Finora avevo scritto romanzi polifonici, dove parlavano persone di tutte le età, dal ragazzino all'ottantenne, mentre questa storia per come la vedevo io potevo scriverla solo dal punto di vista del protagonista, dai sei ai dodici anni. Mi da molto fastidio leggere un libro in cui c'è un bambino con la barba e i capelli bianchi, che si esprime come l'autore.
Devi rinunciare del tutto alla boria, dimenticandoti dei critici letterari e quindi scartando ogni intellettualismo. Il linguaggio dev'essere il più semplice possibile: non facile, ma semplice.
Sono stato tantissimo con i miei nipoti e mi sono reso conto che noi i bambini spesso li pensiamo più stupidi di quello che sono. A volte hanno dei pensieri profondissimi, anche se non te li rendono in quello che per noi adulti è il linguaggio della profondità.
Non m'importa se qualcuno legge il libro e pensa che io non sappia coniugare i congiuntivi. Preferisco quello piuttosto che sentirmi dire che la voce del ragazzino non è credibile. Ho lavorato molto su questo, anche perché se un mio libro è di trecento pagine parte da una prima stesura di almeno ottocento, ma sono pagine che servono solo a me, per costruire i personaggi, trovare le voci e le situazioni. Mi racconto ad esempio la prima comunione di un personaggio o di sua madre, anche se so che poi nel libro non ci sarà. Il romanzo vero può iniziare magari dopo che ho scritto cinquecento o seicento pagine. La prova del nove è poi rileggermi tutto il libro ad alta voce e togliere ogni passaggio che risulti artefatto o spigoloso. Cerco di fare un lavoro lungo perché il romanzo sembri scritto una volta sola. C'è quella frase attribuita a molti autori che dice "scusa se ti ho mandato una lettera molto lunga ma non avevo abbastanza tempo per scrivertene una breve". Credo che sia bellissima: più lavori a una pagina e più diventa semplice.
Ma questo processo di scrittura quanto tempo ti prende dalla prima idea alla bozza di stampa?
Quali sono i tuoi tempi da scrittore?
Questa volta tre anni. Ho cominciato a scriverlo prima che uscisse il libro precedente, "Chi manda le onde", per il quale avevo impegato quattro anni.  Scrivendo senza usare nessun tipo di schema o struttura vai avanti senza sapere mai bene dove sei. Vai avanti, ma a volte devi cambiare direzione, ricominciare. Invidio molto i colleghi che ad Agosto mi dicono "ho iniziato a scrivere un libro e sarà pronto a Natale". Io penso sempre "di quale anno?".
Per me non è possibile scrivere seguendo uno schema preciso. Mi piace quando alla fine del libro tutto torna, il che vuol dire che la storia funziona. Se invece tutto torna solo perché hai forzato la storia a seguire uno schema, è tutto un po' meno naturale. Però per scrivere così ci vuole davvero tanto tempo, a volte ti fermi e resti fermo per parecchio tempo. Sono convinto che un libro scritto in un anno sarebbe migliore se l'autore di anni ne avesse impiegati due.
Le persone leggono poco e hanno pochi soldi per comprare i libri, perciò per me non ha senso riempire le librerie di libri scritti male.

La particolarità di questo libro è che tu nel giro di due pagine crei una magia, in cui introduci subito il lettore, che rimane affascinato dalla storia e incontra dei personaggi che da subito sente di conoscere come se avesse già letto duecento pagine su di loro. Se dici che iniziando a scrivere non sai come andrà a finire la storia perché non segui uno schema, vorrei sapere se la prima pagina stampata è quella che consideravi l'incipit fin dall'inizio o se, invece, è venuta dopo.
Se il lettore si ritrova immerso nella storia fin dal principio credo che dipenda dalle centinaia di pagine che io ho scritto prima e che conosco solo io, ma che mi sono servite a costruire un mondo.
A volte quando leggo i manoscritti di qualche esordiente, anche se non mi sento tanto in grado di dare consigli di scrittura, mi viene da dirgli "tu non conosci il gusto di gelato preferito del tuo personaggio", anche se questo poi nel romanzo non compare. Tu del tuo personaggio devi sapere tutto, cosa pensa, cosa mangia, che auto possiede o vorrebbe avere. Il lettore lo sente se tu non possiedi del tutto la voce del tuo personaggio.
Nelle pagine che scrivo prima muoiono un sacco di persone di cui io vorrei scrivere, ma mentre vado avanti capisco che non sento la loro voce, non li capisco, non mi piacciono e quindi li tolgo dalla storia. Parto solo quando c'è un gruppo di personaggi che funzionano tra loro, e quando capisco che di tutto quello che sto scrivendo ho in mano qualcosa che voglio far conoscere al lettore. Quello è l'inizio del libro. In "Chi manda le onde" c'era una lunga scena iniziale di un ragazzo che stava preparando un esame universitario ma c'era la famiglia della casa accanto che lo disturbava. Più scrivevo e pensavo che, mentre il ragazzo studiava e basta, nella casa accanto succedevano un sacco di cose interessanti, finché la famiglia è diventata la protagonista del romanzo e il ragazzo è sparito completamente.
Anche qua avevo scritto molte altre cose che poi ho eliminato per partire dal villaggio dei nonni-zii.
Mi sembra una cosa più onesta: solo quando ti appassioni veramente riesci a trasmettere delle emozioni. Se so da un anno che a pagina duecento due si baceranno, quando ci arriverò sarò già annoiato, ma se mi verrà in mente tre pagine prima lo scriverò in modo diverso.

È molto interessante anche il fatto che tu descrivi dei personaggi senza descriverli. Permetti al lettore di immaginare una persona fisica senza fornirne tutti i dettagli, e sono pochi gli scrittori che sanno farlo.
Tuttti sappiamo descrivere una persona, ma spesso l'autocompiacimento dello scrittore impedisce al lettore di immaginare. Ognuno deve essere libero di vedere i personaggi come vuole. Il romanzo per me è una casa dove scrittore e lettore convivono, ed entrambi devono arredare la storia.
I personaggi degli zii, per esempio, sono veramente straordinari. Ti sei ispirato a persone reali per caratterizzarli?
È stato facile perché questo libro in realtà è la storia della mia vita. Ogni tanto negli anni scorsi mi capitava di raccontare la mia infanzia e certi colleghi mi chiedevano se avessi avuto davvero un'infanzia così e perché non l'avessi mai scritta. Siccome chi scrive è un ladro, e ruba storie agli altri, ho smesso di raccontarla e l'ho scritta prima che lo facessero loro.
I miei zii erano davvero quelli, anche se ho cambiato alcune cose. Anch'io fino alla prima elementare  ho passato la vita con loro, che si disputavano la mia compagnia: niente asilo, niente compagnia di altri bambini. Pensavo che i bambini che vedevo in giro fossero tutti come me, che avessero nonni e zii che li portassero a fare cose come pescare o andare a caccia.
Arrivare in prima elementare per me è stato uno shock, non sapevo interagire con i miei coetanei e tuttora ho qualche problema. A rileggere certi miei temi di scuola mi sono reso conto che ragionavo come un'ottantenne, parlando del passato anche se avevo solo sette anni.
Però mi capita di sentirmi dire che la mia famiglia era strana, ma al tempo stesso tante cose che facevamo noi le facevano un po' anche tutti gli altri. Ognuno di noi in realtà ha avuto esperienze del genere, piene di amore non detto, con persone come i miei zii le cui bocche erano fatte per bestemmiare più che per dire "ti voglio bene", ma che trovavano comunque il modo per comunicarlo. Quando telefonavo a mio zio Aldo e lui mi diceva di NON andare a trovarlo, sapevo che si aspettava di vedermi arrivare da lui con due pizze per cenare insieme.
Vista la componente autobiografica, e sapendo che la mente di un bambino piccolo è plasmabile al punto che il ricordo di un avvenimento può influenzare il resto della vita, così come vediamo che accade al Fabio protagonista del romanzo, qual è stato l'episodio che ha influenzato di più il Fabio autore da bambino?
Più che un episodio, tutta una serie. Il fatto che non m'invitassero mai alle feste, tanto che ho finito per fare amicizia con gli altri tre o quattro reietti come me. Da lì ho capito che tanto era inutile tentare di andare dietro agli altri, ma era meglio fare solo quello che mi piaceva, e così faccio ancora oggi, seguendo il mio ritmo anziché quelli degli altri.
Ancora adesso, quando vado nelle scuole, vedo quei ragazzi che riconosco subito come sfigati, e mi verrebbe da dirgli "ragazzi, fatevi coraggio perché in futuro starete meglio voi". Hanno fatto un favore ad escludermi perché mi hanno lasciato in un mondo che in fondo mi piaceva di più.
Se fai delle cose solo per piacere agli altri rischi molto spesso di restare deluso.
È più facile incontrare la ragazza adatta a te in un posto dove vai a fare qualcosa che ti piace piuttosto che in una discoteca, se a te le discoteche non interessano.

Spesso si dice che i grandi libri dovrebbero stimolare delle domande nel lettore e secondo me il tuo libro fa questo effetto, ma dà anche delle risposte. La pensi così anche tu?
Non lo so. Domande sì, risposte forse. Non sopporto le persone che vogliono darti delle risposte.
Il mio pensiero è piuttosto "io non ne so nulla, tu non ne sai nulla, andiamo a scoprire insieme cosa succede". Ho paura di quelle persone che a sedici anni sanno già cosa fare da grandi, preferisco quelli che a trent'anni sono ancora nel panico.
Nel libro molte risposte vengono date dalla manualità, dal fare delle cose concrete.
Il coraggio è uno dei temi fondamentali nel libro, ma qua e là compaiono anche frasi un po' ironiche su questo tema.
Dai miei zii ho imparato che le cose sono facili, non nel senso che sia davvero facile farle, ma che è facile capire cosa si deve fare. A volte è sbagliato stare troppo a pensare a quello che si dovrebbe fare, anche perché nella vita è tutto così meravigliosamente casuale.
Una mia ossessione è per le meraviglie naturali: quanto la natura è incredibile mentre noi ci fissiamo con determinate cose. Pensate al fatto che adesso noi ci fissiamo con la teoria del gender mentre le orate nascono tutte femmine e dopo due anni diventano maschi, o i fringuelli fischiano in modo diverso a seconda dei paesi dove vivono.
Non è più facile essere innamorati dell'assurdità del mondo anziché cercare sempre di organizzarsi?
Quando sono alle prese con qualcosa che mi dà ansia, penso sempre ai calamari giganti che a cinquanta metri di profondità nell'oceano combattono con i capodogli, e tutto mi sembra di colpo più semplice. Il coraggio non è dovuto all'assenza di paura ma al pensiero che tanto le cose succedono per conto loro, perciò tanto vale buttarsi.

Nel romanzo si parla tanto di stranezza. Ma cos'è la normalità secondo te?
Per me la normalità semplicemente non esiste, credo sia un prodotto della matematica, che io non amo. Invidio tanto certi miei colleghi come Chiara Valerio, che quando mi parla di matematica mi fa perdere il filo al primo istante.
La normalità è come il salario medio delle statistiche, che non esiste.
Tutte le persone sono in qualche modo strane, solo che alcune sono più brave a nascondere le loro stranezze. Per me la scelta è solo tra essere strani infelici, perché ti mimetizzi, e strani felici perché non nascondi le tue stranezze e le persone ti vogliono anche più bene. Ti piaci e quindi piaci agli altri. Ho una passione per i bambini strani, quelli che fanno discorsi da adulti, che hanno manie assurde e che fanno preoccupare i genitori. Io alimento apposta le loro follie.
Il figlio di un mio amico adora i fumetti ed è convinto che Tex esista, e quando sono in giro per l'Italia gli spedisco delle cartoline firmandole Tex e Kit Arson.
Mia madre ha sempre alimentato le mie fantasie, al punto che ho creduto a Babbo Natale fino a un'età assurda.
Gli strani contenti di esserlo sono l'opposto degli strani che vogliono esserlo, e che per me sono un orrore, in realtà sono le persone più banali e insopportabili che conosca.
Crearsi delle storie dalla vita di tutti i giorni è un buon modo per stare bene. Pensate a quelle coppie che hanno smesso di parlarsi rispetto a quelle che si raccontano i momenti delle loro giornate, creando delle narrazioni interessanti. Le persone non strane finiscono per parlarsi poco.
A proposito del potere delle storie, questo romanzo in particolare sembra essere un'intera concatenazione di storie. Come sei arrivato a questa struttura da fiume in piena? È un tentativo di dare fiducia alla parola, che oggi sembra svilirsi un po'?
Io sono sempre stato affascinato dalle storie. Il romanzo nasce da lì, è un modo per amplificare le storie che ti vengono narrate. Ognuno ha i suoi autori delle storie, io a volte cito come se fossero scrittori persone che non lo sono, ma che sono dei narratori incredibili, soprattutto anziani.
Io vivo a Forte dei Marmi, dove d'inverno vivono solo ottantenni e mi ritrovo ad ascoltarli sempre con estremo interesse. Raccontano storie micidiali. L'anziano che racconta ha tanto tempo e una lucidità mentale non eccezionale, che lo porta a ripetersi, a cambiare le storie che racconta. Il narratore migliore per me  è quello che non conosce del tutto ciò di cui parla, che divaga e ti fa innamorare del suo racconto interrompendolo per parlare di personaggi che non c'entrano nulla.
Le storie funzionano quando stanno addosso ad altre storie.
Io ho fatto il giardiniere per tanti anni e ho scoperto che negli alberi ci sono rami che danno fiori, altri che danno frutti e altri che non danno nulla ma servono per mantenere in equilibrio la pianta.
Così sono i romanzi. Se c'è troppa ansia di mandare avanti la storia, o manca un'armonia tra la vicenda principale e le trame secondarie, i romanzi non mi piacciono.

In questo romanzo si ride tanto ma ci si commuove nella stessa misura.
Ma se i tuoi zii avessero potuto leggere questo romanzo cosa avrebbero detto?
I miei zii sono morti tutti da tempo e siccome erano imprevedibili non saprei dire come l'avrebbero presa. Forse si sarebbero commossi. C'è chi ha paura di scrivere le proprie storie perché non vuole mettersi a nudo, io non mi chiedo mai cosa penseranno gli altri di quello che scrivo. Però mi sono reso conto che in genere alla gente piace essere inserita in una storia.
Una volta ho scritto di un episodio non del tutto gradevole che era successo a un mio compagno di scuola, e questo mio compagno poi mi ha detto di essersi riconosciuto, ma era stranamente offeso perché non avevo dato al personaggio il suo vero nome. Anche il personaggio che fa il corso di computer e che è un mezzo mentecatto, è una persona che esiste veramente, e che avrebbe voluto comparire col suo nome: a volte come autore ti fai delle paranoie ingiustificate riguardo alla privacy delle persone reali. Non so se gli zii avrebbero letto il libro, magari avrei dovuto raccontaglierlo e forse sarebbero stati contenti. Magari si sarebbero pure presentati a qualche presentazione.

Qual è il tuo rapporto col mare, che è sempre presente nei tuoi libri, anche nel senso del ritmo e del ripetizione, come le sue onde?
La ripetizione mi piace perché quando funziona rafforza una storia. Mi piace nella musica, mi piace nel mare e anche nei romanzi. Mi piacciono quegli autori che hanno un mondo dentro di sè e lo raccontano magari in diversi libri, con delle ripetizioni ma senza dire sempre le stesse cose.
Il mare è dove vivo, ci sono cresciuto e mi piace immaginare quello che nasconde sotto di sè, come ti fa capire che sei poca cosa rispetto alla sua immensità. È la stessa cosa che provo leggendo i classici, che sono le mie letture preferite. Confesso che leggo pochissimo di letteratura contemporanea.

Hai un motivo per essere così nostalgico proprio in questo momento della tua vita?
Negli altri romanzi avevo anticipato alcuni elementi del mio passato che ho poi raccolto in questa storia. Mi piace la nostalgia quando però non è chiusura rispetto al futuro. Non mi piace chi dice " era meglio prima", ma andare a cercare le proprie origini in fondo è una cosa attiva.
A me piace riempirmi di cose vecchie, come i vecchi manuali presenti nel libro, ma come mezzo per imparare cose nuove. Sembra paradossale ma pensare che sono esistiti i dinosauri mi dà speranza per il futuro. Pensare che nel passato sono state fatte certe cose fa pensare che si possa fare anche di meglio più avanti. Vedo la nostalgia come una positività verso il futuro.

È stato bellissimo incontrare l'autore di uno dei miei romanzi preferiti, "Chi manda le onde", e scoprire insieme a lui il suo nuovo lavoro: "Il mare dove non si tocca" mi è piaciuto moltissimo, e ve lo consiglio per il vosto prossimo weekend di lettura ;)

Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3

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