Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
Oggi vi porto per mano nel mondo di "L'uomo di casa" di Romano De Marco, edito Piemme (rilegato a 17,50€). Lo faccio insieme allo stesso autore, e all'intervista che abbiamo potuto fare a Milano in occasione dell'uscita in libreria di quello che è già un grande successo di pubblico e di critica:
La vita perfetta di Sandra Morrison è andata in pezzi il giorno in cui Alan, suo marito, è stato ritrovato morto in uno squallido parcheggio. Era seduto nella sua auto, con la gola tagliata e i pantaloni calati. La polizia non ha dubbi: un banale caso di omicidio a scopo di rapina, probabilmente un incontro finito male con una prostituta. Per Sandra, è come essere precipitata in un incubo: ora è rimasta sola nella bella casa di Bobbyber Drive, a occuparsi della figlia adolescente ferita e arrabbiata e a rimettere insieme i pezzi di un puzzle senza senso. Chi era l'uomo con cui ha condiviso vent'anni? Un irreprensibile uomo di casa, marito e padre amorevole, stimato professionista? Oppure un ipocrita dalla doppia vita? E la situazione peggiora quando Sandra scopre che, all'insaputa di tutti, Alan stava indagando da tempo su un caso di cronaca nera rimasto irrisolto trent'anni prima: il rapimento e l'uccisione di sei bambini a Richmond, Virginia, per mano di una donna che nessuno è mai riuscito a identificare. Ma perché Alan era tanto ossessionato dall'enigma della Lilith di Richmond? Cosa lo legava a quella vecchia storia di orrore e morte? E perché aveva tenuto segreto quel morboso interesse? Nella sua angosciosa ricerca della verità, Sandra scoprirà che non solo suo marito, ma tutte le persone che la circondano hanno qualcosa da nascondere. E, soprattutto, che il filo di sangue che unisce l'omicidio del presente a quelli del passato non si è ancora spezzato. E la prossima vittima potrebbe essere proprio lei.
Rizzoli Galleria ci ha ospitati e ci ha permesso di chiacchierare di "L'uomo di casa" circondati da splendidi libri: quale ambientazione migliore?
Ecco tutto ciò che l'autore ci ha svelato sul suo romanzo e sul mestiere di scrivere!
Com'è nata l'idea di questo romanzo?
L'idea si è costruita un po' alla volta. Prima di tutto è nata la voglia di fare qualcosa di diverso. Io vado tutti gli anni in America, faccio base da mia sorella e poi vado in giro. Amo così tanto quella cittadina che mi sono chiesto se non sarebbe stato bello ambientare una storia lì. La coppia di vicini che c'è nel romanzo, Elisabeth e Jeff, esiste veramente: sono proprio come li ho descritti e aspettavano con molta curiosità l'uscita del libro.
Sono partito dalla situazione idilliaca di una coppia benestante, in cui però accade qualcosa che va a rompere questa idea di serenità. All'inizio la storia era un po' diversa, senza la parte che si svolge trentacinque anni prima, che è venuta dopo.
Inizialmente, pensando alla difficoltà di raccontare un personaggio femminile, avevo chiesto a Marilù Oliva di scriverlo a quattro mani. Pensavo che lei avrebbe potuto scrivere le parti femminili in prima persona, e io tutto il resto. Marilù però si è tirata indietro dicendo che l'idea era mia, e adesso penso che sia stato meglio così. Mi ha comunque fatto notare diverse cose che non andavano.
Non racconto mai fatti realmente accaduti per non turbare la sensibilità dei parenti delle vittime o di eventuali superstiti, di chi ha subito dei crimini, quindi dovevo inventarmi il cold case del secolo e ho pensato che non c'è nulla di più odioso dei crimini contro i bambini.
La cosa drammatica è che quando il romanzo era già finito, nel 2015, è uscita una notizia di cronaca simile a quello che io avevo scritto: in Baviera si era svolta una vicenda del genere, per cui è vero che spesso la realtà supera la fantasia.
Invece nel romanzo che sto scrivendo adesso mi sto ispirando a un fatto di cronaca che mi ha colpito molto, la vicenda di Fortuna, la bambina di Napoli seviziata e poi uccisa: per fortuna siamo ancora capaci di restare sconvolti.
Questa "casa", teatro di omicidi, diventa meta di un tour macabro. È davvero così?
Richmond è una città molto diversa dall'America opulenta a cui pensiamo di solito. Lì ha studiato mio nipote, e viveva nella casa che ho descritto, anche se non è mai stata una casa degli orrori.
Il personaggio di Francesco è mio nipote, in effetti.
L'America non ha storia, e fa di qualsiasi cosa una memoria storica. A Vienna, la cittadina del romanzo, c'è il museo cittadino dove si parla solo di una ferrovia che un tempo passava di lì.
Anche la casa di Poe che descrivo a Richmond è un posto squallido.
Così le case dove avvengono dei crimini diventano meta di pellegrinaggi: è un fenomeno al quale abbiamo assistito anche in Italia.
Uno dei leitmotiv del libro è il fatto di scoprire che la persona con cui hai condiviso per anni la tua quotidianità non sia quella che credevi. Al giorno d'oggi sono sempre meno le cose che crediamo di non sapere delle persone, soprattutto da quando tutti condividono tutto sui social. Il fatto di scoprire che la realtà è diversa da come ci appare è rimasta forse l'unica grande paura di oggi, più ancora della paura del mostro?
In effetti, più della paura dell'assassino, a me interessava appunto la paura dell'ignoto, dello scoprire cose che non avremmo mai immaginato del nostro quotidiano e di chi ci vive accanto. Se avete visto l'anno scorso il film "Perfetti sconosciuti" ricorderete che la frase di lancio era "Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta".
Il fatto della condivisione sui social è un falso: i social in realtà aiutano a nascondere, a creare un'identità segreta, ad apparire diversi.
Io non volevo raccontare la costruzione di un'identità attraverso i social perché l'hanno già fatto in tanti. Sandra, la mia protagonista, le cose le scopre sul campo, muovendosi da casa. Ancora più del dolore per la perdita del marito la sua sofferenza deriva dalla paura di non riuscire ad avere delel risposte, di non scoprire mai la verità sul marito.
Oltre a quello di Sandra, grande protagonista, mi è piaciuto molto il personaggio della poliziotta Gina Cardena. Ce ne parla un po'?
A me piacciono molto i personaggi femminili che secondo me offrono più possibilità espressive e maggiore profondità, come questa detective di colore che nel 1979 deve lottare contro razzismo e discriminazione sessista. Con lei sono andato sul sicuro, è un personaggio profondo e pieno di sfaccettature. Sorvolo molto sui metodi della polizia perché non m'interessava parlare dell'indagine, ma delle persone. Gina e Sandra sono i due personaggi principali delle due storie. Donne molto diverse per età ed estrazione sociale.
Farla di colore è stata una scelta precisa?
È stato qualcosa in più per caratterizzare il personaggio.
Una donna molto forte che si fa rispettare e combatte tutto e tutti.
Non è così facile per un autore mettersi da un giorno all'altro nei panni di un personaggio femminile...
Dalla notte dei tempi gli uomini cercano di entrare nella psicologia femminile e non ci riescono, per cui diciamo che è stato un lavoro abbastanza impegnativo. Mi sono affidato a un gruppo di lettura tutto al femminile di Bologna, composto da quindici donne, presieduto da un'attivista femminista, Samantha Picciaiola, con cui mi ha messo in contatto la mia amica scrittrice Marilù Oliva, e la prima stesura del romanzo l'ho fatta leggere a loro. Quando ci siamo incontrati un mese dopo, loro mi hanno dato tantissime indicazioni.
Cosa non funzionava secondo loro nella prima stesura?
Inizialmente il marito di Sandra moriva in un'altra maniera, in una finta rapina, però lei scopriva solo alla fine che era finta, per cui non restava delusa dalla morte dell'uomo. Dopo una settimana arrivava il nuovo vicino di casa nel quartiere residenziale di Vienna (che conosco molto bene perché ci vive mia sorella), e tra loro nasceva un interesse.
Le lettrici mi hanno massacrato, e mi sono reso conto che i tempi in effetti non tornavano.
Una settimana per piangere tuo marito, e basta? Troppo poco.
Così ho spostato l'azione a sei mesi dopo la morte, e ho cambiato le circostanze dell'omicidio affinché Sandra fosse anche delusa oltre che addolorata.
Come autore non sono assolutamente geloso di quello che scrivo e chiedo aiuto molto volentieri. Questa è stata la prima volta che mi sono rivolto a un gruppo di lettura, ma anche sugli altri romanzi che ho scritto ho sempre fatto un lavoro di editing per conto mio con Chiara Beretta Mazzotta, che è una editor molto brava. Con lei lavoriamo per mesi: mi dà consigli sia stilistici che sui contenuti, che a volte accetto e a volte no, per cui discutiamo a lungo. Ci sono diciotto versioni di questo romanzo, che poi magari differiscono solo per una o due frasi, ma questo è il mio modo di lavorare.
Siamo in tanti a scrivere, in Italia ormai scrivono tutti: ritengo un dovere presentare a un editore il meglio.
Nel romanzo si parla anche di perdita: Sandra e Devon perdono una il marito e l'altra il padre.
Perché invece di stringersi nel dolore, le due donne si allontanano?
Vivono la perdita in maniera diversa. Per Sandra accanto al dolore per la perdita del marito subentra subito, viste le circostanze di questa morte, il terrore di aver vissuto con una persona diversa da quella che ha conosciuto, e di non scoprire mai la verità.
Per Devon è diverso, perché in lei scatta un meccanismo di negazione: non accetta la morte del padre e ancora meno le dicerie su di lui. La barriera si crea perché madre e figlia non riescono a comunicare tra loro su questo. Il dolore si vive in maniera diversa a seconda dell'età, e spesso non si riesce comunque a comunicarlo anche nell'ambito familiare. Sandra ha un doppio carico, come moglie e come madre.
Sapeva già come sarebbe andato a finire il romanzo fin dal principio?
Quando invento una storia metto dentro solo qualche dato: ambientazione, inizio e fine.
Tutto il resto viene scrivendo, ma il colpo di scena finale lo metto sempre in tutti i miei libri.
Per me non è pensabile scrivere una storia senza aver bene presente il finale, che è il piatto forte dei romanzi di genere.
Con questo romanzo è passato dal noir al thriller, sia come ambientazione che come storia.
Quali sono le difficoltà nello scrivere romanzi noir rispetto ai thriller, e viceversa?
Il termine noir è diventato molto abusato. Io concordo con Massimo Carlotto sul fatto che sia diventato una narrativa di contenuti più che di genere, perché nel noir racconti la realtà italiana, la società, e racconti anche molto di te stesso come autore.
Nei miei romanzi del ciclo su Milano ho messo molto di me stesso, del mio modo di pensare, di agire, il mio punto di vista su certi argomenti (come la situazione delle carceri), oppure la separazione e il divorzio. Il noir si presta a questo tipo di contaminazione tra autore e opera. Però poi ho voluto cambiare e mettermi al servizio della storia.
Qui - e nel thriller in generale - c'è poco dell'autore. C'è molto lavoro sui personaggi, che però hanno poco o niente di me e proprio per accentuare questa scelta ho favorito la discontinuità dell'ambientazione scegliendo l'estero, e anche se ho avuto altri personaggi femminili, come il commissario di polizia Laura Damiani, qui la protagonista doveva essere una donna qualsiasi.
Come si fa a mantenere un equilibrio tra bugie e verità in un romanzo?
Un autore racconta una storia inventata, quindi una bugia, però ci mette dentro molte verità. Non puoi fare a meno di metterci dentro molto di te stesso, del modo in cui intendi la vita, i sentimenti, i rapporti con gli altri.
Io sono un uomo di cinquant'anni con una mia storia personale completamente diversa dalla protagonista Sandra, poco meno che quarantenne, con una bella famiglia felice, mentre io ho un vissuto diverso, che traspare dai personaggi del mio ciclo su Milano.
Qui ho cercato di mettermi a disposizione del lettore. Qui non c'è la dimensione sociale del noir, ma solo la volontà di scrivere una bella storia.
Come accennato già all'inizio, in questa storia quasi nessuno dei personaggi è quello che appare. Ci sono doppie e triple identità, cambi continui ... una storia così funzionerebbe anche in un'ambientazione italiana, oppure no?
Secondo me sì. Avevo il timore che l'editore mi chiedesse di ambientarla in Italia. Per fortuna Piemme, alla quale ho proposto questo romanzo in quanto strutturata per valorizzare al meglio i thriller, non mi ha chiesto di fare questo cambiamento.
Forse la provincia italiana manca di appeal? Suona meglio "Vienna, Virginia" rispetto ad Abbiategrasso? Accetteremmo lo stesso una storia ambientata in un posto simile, ma qui?
Di autori italiani di thriller e noir di successo ce ne sono pochi, e da parte degli editori italiani c'è la ritrosia ad accettare storie ambientate all'estero.
Gli autori di successo adesso sono De Giovanni, Manzini, Camilleri, e sono tutti fortemente caratterizzati su territori italiani riconoscibili. Del resto, molti editori stranieri chiedono proprio questo, il romanzo dove si parli degli spaghetti con le sarde. Io volevo sganciarmi e ho pensato di cercare un piccolo spazio tra gli autori italiani che scrivono thriller ambientati all'estero.
Perché a un certo punto ha voluto inserire una poesia?
In fatto di poesia mi sento una capra, come direbbe Sgarbi, perché ne leggo poca.
Questa poesia, che fa parte della famosissima "Antologia di Spoon River", l'ho sempre amata.
Quando l'ho letta la prima volta sono scoppiato a piangere, forse perché stavo vivendo un momento particolare della mia vita di padre.
Non potevano metterla nella traduzione classica di Fernanda Pivano per un problema di diritti, e allora l'ho tradotta io.
Del resto c'era una mia poesia all'inizio di "Città di polvere", solo che forse non era un granchè visto che mi hanno detto "È bella, però la leviamo....".
Poesia, quindi. E poi? Che lettore è Romano De Marco?
Io leggo di tutto. In passato leggevo anche cento libri all'anno, adesso mi fermo a cinquanta perché faccio un lavoro impegnativo, ho due figli adolescenti di cui mi devo occupare quando stanno con me, vado al cinema e seguo una ventina di serie tv in lingua originale. Di questi cinquanta libri, dieci-dodici sono narrativa di genere thriller-noir. Adesso sto leggendo Moresco, poi devo leggere Raul Montanari che è un mio amico. Mi piace molto la narrativa italiana. Per chi scrive, secondo me, è fondamentale leggere. Diceva proprio Montanari "scrivere senza leggere è come pretendere amore senza essere disposti a darlo".
Ci sono alcuni autori molto importanti in Italia, senza far nomi, che si vantano di non leggere i contemporanei ma di dedicarsi solo ai classici. Per me è un atteggiamento sbagliatissimo.
Bisogna leggere di tutto: ti apre la mente e ti aiuta a migliorare.
Io dal mio primo romanzo, che era un Giallo Mondadori, ho cambiato moltissimo il mio modo di scrivere. Mi vergogno rileggendomi e mi chiedo "ma come hanno fatto a pubblicarmi?" ma questo miglioramento è avvenuto perché ho letto tanto.
Che strada potrebbe prendere secondo lei il giallo in Italia?
Perché se guardiamo anche adesso gli scaffali intorno a noi vediamo il fenomeno del giallo svedese, quello americano con tutte le sue varianti - dal thriller legale a quello psicologico, ma noi... dove stiamo andando?
In Italia quello del thriller è un campo che lascia ancora degli spazi da esplorare.
Abbiamo Carrisi che vende tanto all'estero e ha un genere ben definito, di stampo anglosassone ma con un'ambientazione sempre sospesa. Non c'è una scuola precisa, in Italia. Il noir è stato un po' inflazionato, tant'è che anche Dazieri e Carlotto sono tornati al thriller.
Io ho voluto scrivere un prodotto molto di genere, anche se non ci ho messo un serial killer o altri aspetti truculenti. Qui non era necessario parlare di violenza.
Molti autori sono stati lanciati in grande come Mirko Zilahy e Luca D'Andrea, però sono fenomeni isolati: non vedo ancora una strada precisa.
Ringrazio Piemme e Romano De Marco per l'incredibile opportunità di chiacchierare con l'autore di un romanzo che è già in ristampa e che è arrivato subito in vetta alle classifiche di IBS.
Traguardi meritatissimi, perchè "L'uomo di casa" non potrà fare a meno di conquistarvi!
Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3
Nessun commento:
Posta un commento