giovedì 5 maggio 2016

Chiacchierata con Kathryn Hughes, su "La lettera", l'auto-pubblicazione e i ricordi

Buongiorno a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
La chiacchiera librosa di oggi è dedicata alla chiacchierata con Kathryn Hughes, autrice di "La lettera", in uscita proprio oggi per Nord (rilegato a 16,60€):
Quanto può durare un ricordo? Tina se lo chiede ogni sabato, davanti ai vestiti usati che vende per beneficenza. E se lo chiede quando, in una vecchia giacca, trova una lettera che risale al settembre 1939. E che non è mai stata spedita. Chi saranno mai Chrissie, la destinataria, e Billy, l’uomo che nella lettera implora il suo perdono? Qual è la storia che li unisce? E che ne è stato di loro?
Inseguire quel ricordo ingiallito diventa ben presto per Tina una ragione di vita, l’unico modo per sfuggire a un marito violento e a un’esistenza annegata in un oceano di rimpianti. Con una passione e un coraggio che non sapeva neppure di avere, Tina inizia quindi a scavare nel passato, intrecciando ricordi arrossati dal sangue della guerra e confusi dalle nebbie del tempo. Inizia a lottare per cambiare. Per vivere, finalmente. Perché sa che aggrapparsi a quel ricordo significa non arrendersi, sfidare il destino, scommettere sulla propria felicità. E che non è mai troppo tardi per perdonare. Soprattutto se stessi.
Una storia che regala un crescendo di emozioni e in cui ogni donna si può identificare; un’autrice che sa raccontare con slancio e sincerità la forza dei sentimenti: ecco perché La lettera ha entusiasmato i lettori di tutto il mondo, diventando in brevissimo tempo un autentico bestseller e rimanendo nel cuore di chiunque abbia trovato, nella vita dei suoi personaggi, una scintilla della cosa più preziosa in assoluto: la speranza.

Il romanzo lo avevo recensito qui, e mi era piaciuto moltissimo.
E' stato meraviglioso incontrarne l'autrice davanti a un piatto di buonissimo sushi, e chiacchierare di tutto ciò che mi ha incuriosita durante la lettura.
Spero che risponderà anche ad alcune vostre curiosità!

Come hai deciso di porre proprio una lettera al centro della tua storia?
Scrivere lettere è qualcosa che non fa più quasi nessuno, in fondo, e soprattutto qualcosa che non fa più parte della vita quotidiana.
Ho scelto la lettera perché avevo un’idea ben precisa del periodo storico nel quale volevo ambientare parte della mia storia.
Nel 1939 non c’era altra scelta se non quella di scrivere una lettera, e anche nel 1973 quando Tina scopre la lettera di Billy in una vecchia giacca la corrispondenza su carta era qualcosa che ancora si manteneva nella vita di ogni giorno.
Le lettere “durano”, a differenza di ogni forma di comunicazione digitale diffusa oggi: è istantaneo e funzionale, ma non crea un ricordo, una testimonianza.
I ragazzi oggi si sono sicuramente un po’ impigriti da questo punto di vista, al punto che anche quando scrivono a mano usano le abbreviazioni tipiche della messaggistica instantanea.
C’è chi definisce la mia generazione una generazione senza ricordi, perché tutto ciò che abbiamo come ricordo è in forma digitale e facilissimo da perdere.
Assolutamente, pensiamo alle foto!
In moltissimi non le stampano nemmeno più, e io invece ricordo quando avevi la tua macchina fotografica e il tuo rullino da 24 o 36 scatti, ed era incredibilmente fastidioso quando la foto non riusciva o quando non potevi scattarne più.
Dovevi “pensare” ogni scatto, e soprattutto dovevi aspettare per vederle.
Ci voleva una settimana per scoprire com’erano venute, e quando finalmente erano tra le tue mani e potevi metterle in un album: avevi qualcosa da sfogliare e risvegliare.
Ora manca proprio il senso di attesa, di sorpresa: è tutto istantaneo ed immediato, e forse meno magico.

In “La lettera” troviamo invece una missiva che viene scritta e letta dopo più di trent’anni: tutt’altro che istantaneo!
Com’è stato gestire due storie che si snodano con un “buco” di tre decadi, e riuscire a svilupparle in modo che fossero evidenti i parallelismi e i momenti di quasi-intreccio?
Sapevo di volere che passasse molto tempo tra la redazione della lettera e la sua scoperta, ma volevo che “quel” personaggio (ho omesso il nome per evitare spoiler, ndr) fosse ancora vivo e potesse apparire nel finale.
Se avessi posto il finale troppo in là, per esempio ai giorni nostri, questo non sarebbe stato possibile.
Questo ha condizionato il posizionamento cronologico della seconda storyline, insieme al fatto che io ho un debole per gli anni Settanta.
Sono un’epoca alla quale guardiamo tutti con nostalgia, forse perché è così che si pensa agli anni della propria infanzia e prima adolescenza. I lettori che provavo a raggiungere erano esattamente quelli che negli anni Settanta erano bambini o ragazzi, e che avrebbero potuto comprendere al meglio il mondo in cui si muove Tina.

Hai scritto il romanzo così come lo leggiamo noi, saltando avanti e indietro, oppure lo hai sviluppato in parti che poi hai spezzato e ricomposto, un po’ come se fosse un puzzle?
Credo sia davvero difficile per uno scrittore alternare così di frequente le storie in fase di creazione senza rischiare di perdersi.
Bella domanda.
Direi che ho fatto entrambe le cose, ma soprattutto devo dire che, a tratti, era come se stessi scrivendo due romanzi invece di uno.
Erano due storie differenti, quella di Chrissie e quella di Tina, e a volte era quasi un sollievo poter saltare da una all’altra.
La struttura è cambiata molto rispetto a quello che era il mio piano originario, perché mi sono resa conto che a volte i salti erano troppo frequenti.
Inoltre, quando un capitolo finiva con un piccolo colpo di scena per Tina o per Chrissie, volevo che il capitolo seguente cominciasse con la storia dell’altra per mantenere alto l’interesse del lettore e stimolarlo ad andare avanti per scoprire cosa sarebbe accaduto al personaggio momentaneamente in difficoltà.
Un aspetto del tuo romanzo mi ha incuriosita molto, perché si tratta di qualcosa accaduto prima della mia nascita e del quale so davvero pochissimo: la triste realtà delle ragazze-madri segregate nei conventi e costrette a cedere i propri figli in adozione.
Essendo un argomento che è quasi un tabù, è stato facile fare ricerche in proposito, o c’è molto materiale da consultare nonostante ciò?
In effetti ci sono davvero moltissimi testi da consultare sull’argomento, nonostante sia qualcosa di cui ancora oggi non si parla volentieri.
Molte sono testimonianze di donne che hanno subito quella situazione, o di figli che hanno scoperto solo dopo di essere stati strappati alle loro madri biologiche in quel modo.
Nel momento in cui ho scritto quella particolare parte del romanzo ho dovuto non solo documentarmi sull’argomento per descriverlo nel modo più realistico possibile, ma anche capire cosa si sapesse di questa situazione quando Chrissie e Tina ci entrano in contatto: non potevo infatti dare a due donne vissute nel 1940 e nel 1973 la stessa conoscenza e consapevolezza di una persona di oggi.
Nel 1973 questa realtà non era ancora stata “svelata” e condannata del tutto, e l’ultimo di questi posti orribili di fatto ha chiuso solo nel 1992.
Questo è un problema ogni volta che si sceglie di ambientare la propria storia nel passato, in fondo.
Anche solo pensando a come guardiamo agli anni Settanta oggi, è chiaro che la nostra prospettiva è decisamente differente da qualcuno che quell’epoca la stava vivendo in tempo reale.
Io stessa penso agli anni Settanta come a un’epoca felice, ma se poi cerco di essere obbiettiva mi trovo a considerare aspetti come i continui scioperi, i blackout energetici.
Nei tuoi ricordi c’è sempre il sole, insomma, anche quando nella realtà pioveva e faceva freddo.
Ho letto da qualche parte “Vorrei davvero che esistesse un modo di sapere che quelli sono i cari, vecchi giorni felici prima che siano finiti”, ed è un pensiero in cui mi rispecchio.
Succede lo stesso con la gravidanza e il parto, se ci pensi: se davvero ci focalizzassimo sul dolore nessuno avrebbe più di un figlio, e invece in un certo senso il nostro cervello “annebbia” il ricordo del dolore lasciandoci quelli ben più gradevoli del primo sorriso o della prima poppata, permettendoci di desiderare di rivivere l’esperienza.

Ultima domanda sul libro, per evitare gli spoiler, ed è sui personaggi del tuo romanzo.
Hai dato a tutti la chiusura che desideravo, tranne che a uno (ho omesso il nome per evitare spoiler, ndr). Mi chiedevo se ne avessi uno al quale sei particolarmente legata.
Ho in effetti un personaggio preferito all’interno del romanzo, e ora ti racconto perché.
Quando ho iniziato a scrivere la mia storia, credo che fossi arrivata al terzo capitolo di quella che era la stesura originaria, ne ho parlato a un collega di lavoro, ed è l’unica persona alla quale ho parlato del mio romanzo che mi abbia chiesto “Posso apparire nella storia?”.
Ho pensato “Perchè no?”, ed è lì che è nato il personaggio dell’amico di Billy, Clark.
Il mio collega si chiama Kevin, e dal punto di vista fisico e degli atteggiamenti, parlata inclusa, il personaggio di Clark è il mio collega messo su carta.
La sua personalità, le sue origini, il suo accento, tutto questo è finito nel personaggio di Clark.
Ricordo che quando rileggevo le mie bozze spesso pensavo “Oddio, Kevin non può leggere questo!” e magari facevo dei cambiamenti.
Poi ho pensato che tanto molto probabilmente non lo avrebbe letto nessuno e quindi poco importava. Certo non immaginavo che, alla fine, lo avrebbero letto migliaia di persone!
Siccome è un personaggio minore, e nel romanzo non ho scritto come si sia poi sviluppata la sua storia, un sacco di lettori mi hanno contattata dicendomi di averlo amato e chiedendomi cosa ne fosse stato di lui.
Posso anticiparti che progetto di “riportarlo in vita” nel mio terzo romanzo, che è ancora in fase di pianificazione.
Voglio che abbia un finale lieto, e spero di potergliene dare una: sarà un romanzo auto-conclusivo, e anche se Clark non ne sarà il personaggio principale potrò far scoprire ai lettori di “La lettera” cosa ne sia stato di lui.
Inoltre, il cane nel romanzo altri non è che il mio cane, Teddy, che purtroppo non è più con noi.

Ho infine una domanda sulla genesi del romanzo, perché ho letto che inizialmente era un’auto-pubblicazione in vendita su Amazon.
L’esperienza di auto-pubblicazione nel tuo caso è stata sicuramente positiva, con migliaia di copie vendute, ma mi chiedo: una volta che consideri tutti i fattori, è davvero così bello essere autori auto-pubblicati, o ci sono troppe decisioni da prendere in autonomia, troppe complicazioni?
Ora che hai potuto sperimentare anche come sia essere pubblicati da un editore, la tua idea in proposito è cambiata o è rimasta la stessa?
Ottima domanda, perché ci sono ovviamente pro e contro per entrambe le forme di pubblicazione.
L’auto-pubblicazione è difficile ed impegnativa soprattutto quando si tratta del tuo romanzo di debutto: è dura farsi notare dagli agenti e dalle case editrici, che ovviamente guardano al tuo romanzo da un punto di vista prettamente commerciale e devono stampare qualcosa che poi non giaccia abbandonato nei loro magazzini.
Per l’autore se, come me, ha passato quasi sei anni della sua vita lavorando al suo libro, perché non pubblicarlo?
Ora si può: certo, il problema è che proprio perché si può, finiscono per farlo tutti.
Nel Kindle Storie ci sono circa 2 milioni di libri, e il tuo può molto facilmente andare perso.
Io non avevo certo un’agenzia di pubblicità che promuovesse il mio, e di fatto è stato merito del passaparola se è riuscito a non essere “inghiottito”: le persone che lo hanno letto lo hanno recensito positivamente e consigliato, e quando Headline (la casa editrice che ha stampato il romanzo in Inghilterra, ndr) lo ha scelto e ha deciso di investire su di me e sulla mia storia ero molto felice.
Credo che comunque una grandissima differenza, ed il motivo per il quale alcuni autori auto-pubblicati non vogliono nessun contratto di edizione con editori tradizionali, è che se da un lato ricevi guida e supporto, dall’altro rinunci al controllo totale sul tuo lavoro.
Per esempio, il mio secondo romanzo doveva rispondere a determinate indicazioni, e anche se ho avuto comunque un’idea mia e ho scritto la “mia” storia, quando è stato il momento di darle un titolo hanno bocciato la mia proposta, e lo stesso è accaduto per la copertina.
Io continuo a pensare al mio libro con il titolo che avevo scelto, comunque.
Te lo chiedevo perché quando ho intervistato Jamie McGuire, che pur essendo un’autrice di successo e pubblicata da case editrici in tutto il mondo continua ad auto-pubblicare molte delle sue storie, lei diceva più o meno la stessa cosa: per lei il bello dell’autopubblicazione è che sei il capo di te stessa e quindi hai pieno controllo sul tuo lavoro, ma il brutto è che sei il capo di te stessa e quindi a te tocca anche risolvere ogni complicazione e problema.
Mi ci ritrovo anch’io, e sono proprio i pro e i contro di cui parlavo.
Per me, se non avessi auto-pubblicato il mio romanzo nessun editore lo avrebbe visto e nessuno lo avrebbe letto.
Per questo dico “Hai scritto un libro? Perché non auto-pubblicarlo?”, perché in fondo cos’abbiamo da perdere?
A parte la nostra reputazione, ovviamente.

Io ringrazio moltissimo Nord per la possibilità di incontrare l'autrice di un romanzo che ho amato, e Kathryn Hughes per aver risposto a ogni mia domanda.
Spero che la chiacchierata vi sia piaciuta, e che vi abbia incuriosite un po' riguardo al romanzo.

Un bacio a tutte, fanciulle (e fanciulli)!
A presto <3

1 commento:

  1. Mi è piaciuta in particolar modo la domanda/risposta su come ha scritto il libro, ovvero come ha incastrato le due storie.
    Mi è venuto in mente che anche io ho scritto la mia tesi di laurea - e so che non è la stessa cosa - allo stesso modo: scrivendo capitoli passando da uno all'altro a seconda dell'ispirazione che avevo in quel momento e tentando poi di incastrare il tutto dandogli un senso.

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